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Le mie origini sono del sud, precisamente di Caserta, in Campania.
Li ho tutti i miei parenti, lì è dove ho passato tutte le mie estati fino ai quattordici anni, lì è dove ho conosciuto il significato di dolore e, soprattutto, odio.

Non ricordo con precisione la mia età, nove o dieci anni, ricordo però il fatto accaduto.

-Ma prima devo fare una precisazione:
Non sono mai stato uno di quei bambini che vengono definiti "normali". Ad esempio non amo lo sport, specialmente il calcio che è molto amato dalla mia famiglia, ma non da me. A differenza di tutti i mie cugini che erano (forse sono) maleducati e iperattivi(e venivano elogiati per ciò, specialmente per la maleducazione e l'arroganza che veniva fatta passare per divertimento con la solita frase "sono bambini"), io ero calmo e logico -bersaglio ideale-. Ero molto timido, altro motivo di derisione. E alcune volte anche ingenuo, motivo di prese in giro. Ma la cosa che più infastidiva tutti era la mia sensibilità: "piange sempre sto bambino", era la frase che accompagnò le mie estati napoletane. Per non parlare del fatto che non mi piace il caffè, un culto allo stremo del religioso nel mio albero genealogico. In poche parole lo strano di famiglia.-

Ma ritornando a noi;
Una sera d'estate, nel paese dei parenti, eravamo tutti noi della famiglia riuniti a casa di un zia, e a mio padre venne la brillante idea di andare a comprare i gelati per tutti.
Ricordo che si alzò, io ero già in piedi, si posizionò davanti a me e chiese a tutti che gelato volessero ignorandomi completamente. Anche quando prese le ordinazioni di tutti non si voltò per me. Fu mia madre a dirgli «E a tuo figlio non chiedi?».
«Ah sì», fu la sua risposta.
Prese anche la mia ordinazione (un semplice cornetto, a differenza dei gelati stravaganti dei cugini).
Andò a prenderli con mio cugino, non chiedendomi nemmeno se volessi andare con loro.

Essere ignorato così apertamente da mio padre mi fece bruciare il cuore di dolore. Non capivo perché di questa insensata crudeltà, perché a me. Ricordo perfettamente il mio cambio d'umore in una rabbia cieca. A ripensarci oggi sento ancora la furia dentro il corpo, dormiente sulla mia lingua. Ritornarono dopo una decina di minuti con un sacchetto pieno di gelati, tutti i gelati desiderati tranne uno, il mio.

«È finito», furono le sue parole.
«Com'è possibile che un bar finisca i cornetti», chiesi allora io. Ricordo la voce tremante per la rabbia, la vampata di calore, le lacrime che mi pizzicavano gli occhi.
«Finiti», ribadì mio padre.
«Allora perché non mi hai preso un altro gelato?», insistetti io.
Nessuna risposta.

Ognuno mangiava il suo gelato e rideva per la battuta di qualcun altro. Solo mia madre mi consolò e mi diede un po' del suo gelato con le amarene, che mangiai mischiandolo con le mie lacrime ignorate da tutti gli altri.

Il sospiro di un uomoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora