Diciannove

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È squillata da poco la ricreazione e io sono nel bagno degli uomini del primo piano.

Oggi passerò qui i miei quindici minuti di pausa, ho dei soldi facili da guadagnare.

Il ragazzetto è un primino occhialuto con un accenno di barba tra i brufoli dell'acne.

Mi guarda come si guarda qualcuno che ti intimorisce, intimidisce e di cui vorresti prendere il posto in un secondo, vendendoti tua madre in cambio.

" Quanto?", chiedo facendo mente locale per ricordarmi quante palline e quante bustine mi sono rimaste in tasca.

"Dieci".

Mi porge una banconota da dieci euro e io gli passo una pallina di fumo avvolta nella stagnola.

La prende velocemente e la fa sparire con un'espressione colpevole che mi fa sorridere.

Dopo di lui vedo altre ventitrè persone, quando mi ritrovo con le tasche vuote, esco dal bagno e mi accorgo che ce ne sono altre cinque in fila.

"Dopodomani.", li informo mentre salgo al terzo piano e torno in classe.

La lezione è già iniziata da dieci minuti, ma il prof non mi dice niente vedendomi rientrare.

Da sotto il banco mando un messaggio a Mauri con su scritto 300.

Maurizio ha un debito con suo cugino Giovanni di svariate migliaia di euro, risale al periodo in cui sua madre era ancora viva e malata terminale e lui aveva bisogno di morfina di contrabbando per aiutarla a sopportare il dolore.

Perchè quella che le davano i dottori non bastava, non bastava mai.

Così si era messo a spacciare qualcosa per suo conto, niente di pesante, solo fumo ed erba, raccimolando qualche soldo, piano piano. Da quando ci eravano conosciuti, circa un anno dopo la tragedia, mi ero messo a farlo anche io, gli davo la metà di tutto quello che guadagnavo e lo aiutavo a saldare il debito. Così io non dovevo più dipendere dai soldi di mia madre, lui lentamente non doveva più niente a Giovanni ed eravamo tutti felici.

Maurizio non parlava mai della madre, non la nominava mai.

Tranne una notte, quella volta che ubriachi ci eravamo addormentati a casa sua, sul suo letto, dopo che avevo messo le carte in tavola, dopo che lo avevo preso a pugni, dopo che avevamo parlato e ci eravamo abbracciati e avevamo pianto e avevamo capito che io e lui eravamo l'unica famiglia che avevamo.

Non avevo fatto in tempo a conoscerla, quindi non sapevo che tipo fosse, ma la immaginavo come una persona dolce e felice delle piccole cose. Le fotografie che li ritraevano insieme, mostravano una donna piccola e rotondetta, con un sorriso contagioso e lunghi capelli mossi, dello stesso colore del figlio.

"Fabio, vuoi condividere i tuoi pensieri con noi o preferisci venire alla lavagna e risolvere questo integrale?"

La voce del prof mi riporta bruscamente in classe, mi alzo senza dire una parola e studio per qualche momento la serie di numeri, simboli e lettere scritti sulla lavagna, poi prendo il gesso e inizio a scrivere.




Guardo l'orologio, mancano dieci minuti al suo arrivo.

Finisco di vestirmi e mi passo sul viso il dopobarba, mi era sembrato le piacesse il profumo.

Ho fatto la doccia, scelto una maglietta verde scuro, a maniche lunghe e aderente, che mi aveva regalato Lorena, che sapevo mi metteva in risalto i bicipiti e le spalle e pettinato i capelli umidi all'indietro.

Sorrido al mio riflesso nello specchio, un tipo belloccio mi sorride di rimando.

Mi sento stranamente calmo, calmo come prima di tuffarmi da uno scoglio a picco sul mare.

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