PROLOGO

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Chi di noi non ha incubi?
Quando sei sotto pressione, quando vivi un periodo difficile,
quando la paura di qualcuno o qualcosa, ti angoscia; quell'incubo
che ti toglie il respiro, che ti fa tenere la luce accesa, che non ti
fa dormire; quell'incubo che ti tormenta, perché temi che un
giorno possa diventare realtà.
È buio
È freddo.
Sono sola, vago nell'oscurità senza sapere dove sto andando,
so di essere in uno spazio chiuso, non sento rumori, non c'è
vento ma ho molto freddo.
Sto male, sono spaventata, preoccupata, spaesata… ho
bisogno di aiuto, cerco ovunque ma non trovo nessuno, non c'è
nessuno che mi risponda; non riesco quasi più a camminare, le
gambe stanno cedendo, come le mie forze, sono sopraffatta dai
dolori al ventre, dalla paura, dalla stanchezza.
Cerco con le mani qualcosa a cui appoggiarmi, per capire
dove mi trovo, mi giro con la speranza di intravedere qualcosa o
qualcuno che mi guidi, ma niente: è tutto buio intorno a me.
Solo buio, tanto freddo, e un silenzio tombale, rotto solo dalla
mia voce che rimbomba come fossi in una stanza chiusa, ma
apparentemente senza pareti.
I dolori aumentano e all'improvviso diventano delle vere e
proprie scosse, il mio corpo sembra non appartenermi più, non
riesco a gestirlo, poi uno strappo all'inguine e qualcosa di denso
e viscido scivola lungo la coscia: probabilmente è sangue, ma
non posso a vederlo.
Di nuovo grido chiedendo aiuto, con tutta la forza che ho, ma
è come se non riuscissi a tirar fuori la voce, provo di nuovo,
piangendo, supplicando, pregando il Cielo che non debba finire
così; sono esausta e disperata.
L'angoscia mi pervade, dolori e fitte aumentano, il sangue,
sento qualcosa che si sposta con forza nella mia pancia e spinge
per uscire, mentre grido di dolore e di paura.
Perché sono ancora sola, è ancora buio, ed è ancora freddo?
D'improvviso, si apre una porta, una luce attraversa la stanza,
ma non arriva fino a me; passano correndo dei medici, delle
infermiere, entrano ed escono con delle barelle, tutti di fretta,
come per un'emergenza, ma non sono lì per me, anzi nessuno
mi vede e ancora nessuno mi sente.
Non riesco a muovermi, vorrei raggiungerli, ma sono
bloccata, allora provo a gridare ma dalla mia bocca non esce
alcun suono, sono invisibile, inesistente, sono in un angolo cieco,
nessuno si accorge di me, nessuno vede o sente il mio strazio.
Ho sempre più paura, invoco mia madre piangendo, la vorrei
con me, e poi d'un tratto la vedo, in lontananza, oltre quella porta
rimasta leggermente aperta, parla con qualcuno, ma non so chi,
noto che è molto agitata; intorno c'è confusione, la chiamo ma
non mi sente, grido più forte che posso, e finalmente la mia voce
è chiara e potente, lei si gira di scatto come se mi avesse sentita,
ma non può vedermi, non riesce a trovarmi, e la porta di colpo
si richiude.
È di nuovo tutto buio e silenzioso, non c'è più nessuno, vorrei provare ad andare nella direzione di quella porta ma sono
immobilizzata; i dolori sono più intensi e frequenti, mi stanno
sfiancando, mi accascio a terra, su di un pavimento ghiacciato e
scivoloso, probabilmente per il mio stesso sangue, ma non c'è
nulla attorno a me, non so dove appoggiarmi o aggrapparmi.
Sento che sta per succedere, una parte di me si sta staccando
dal mio corpo, spingo, poi mi fermo e respiro, poi spingo ancora,
ormai devo, non posso fermarmi, ce la devo fare, grido e spingo
trafitta dal dolore, dall'impotenza, dalla paura, dallo sconforto.
All'improvviso avverto una presenza alle mie spalle che
lentamente si avvicina, una mano gelida dalle dita lunghe e magre
si poggia sul mio braccio; sento il suo odore, acre e pungente,
no, non può essere, non può essere lui!
Mi volto incredula, tremo; è lui, lo so, lo sento, lo riconosco.
Una luce fioca ora illumina appena la stanza, ma non so da
dove provenga né ho modo di capirlo perché sono raggelata da
quella presenza.
Scuoto la testa e borbotto: «No, no. Cosa vuoi? Perché sei
qui?»
Ma lui, col suo ghigno malefico e gli stessi occhi gelidi e
sprezzanti di sempre, mi guarda, con forza inizia a stringermi le
braccia come in una morsa, sempre più stretta, mi fa male ma
intanto ho un'altra fitta perciò grido e spingo mentre lui affonda
le sue dita nella mia pelle ridendo divertito mentre distrutta, con
un filo di voce, lo imploro di smettere.
«Sono stato a guardarti finora, è stato divertente, ma ora basta,
mi sono stancato! Cambiamo gioco!», mi dice lui col sorriso
più bastardo che abbia mai visto.
«Ma quale gioco!», spaventata e sconcertata, in un urlo soffocato
dal dolore, «Come puoi pensare che sia un gioco? Come hai
potuto stare fermo a guardare senza fare nulla?»
«E cosa dovrei fare, eh?», mi risponde cambiando tono ed
espressione, urlandomi contro il viso con rabbia e cattiveria, «Sei
tu la stronza puttana che deve partorire! Cosa cazzo vuoi da
me?», e afferrando di nuovo le mie braccia intorpidite e doloranti
inizia a scuotermi sbraitando: «Dimmi cosa vuoi? Vuoi che ti
mantenga? Vuoi dei soldi? Io non ti do un cazzo, non so nemmeno
se questo figlio è mio, schifosa puttana, chissà con quanti
sei stata! Dimmelo! Dimmelo!»
Io sono già così stremata, non ho la forza di rispondergli, non
riesco a pensare, non riesco a parlare; avverto una sensazione di
freddo e formicolio sottopelle che sale dalle gambe fino allo
stomaco, poi anche alle braccia e mi sento come in una bolla, sto
per svenire, sto per cadere, chiudo gli occhi, sto per mollare,
forse sto per morire.
Ma qualcosa di terribile e, allo stesso tempo meraviglioso, mi
scuote con una forza tale da riprendermi; un dolore lancinante
come una scossa elettrica mi risveglia da quel torpore per
consentirmi un ultimo sforzo, un ultimo grido, un'ultima spinta
ancora per dare alla luce il mio piccolo miracolo.
Lui lascia la presa e si allontana da me, rimane in un angolo a
guardare, non lo vedo ma so che è lì, sento il suo inconfondibile
odore, la sua anima nera che vuole di nuovo prendersi la mia vita,
o peggio.
Spingo con l'ultimo pizzico di energia che ancora mi è rimasta,
un grido straziante ma liberatorio, poi il sollievo fisico, quei
dolori laceranti di colpo sono terminati, ma c'è troppo silenzio.
«La mia bambina, dov'è? Perché non piange? Aiuto!», appesa
a un sottile filo di vita, disperatamente continuo a sibilare «la mia
bambina… la mia bambina…»
«Non doveva nascere cazzo! Ma cosa cazzo pensavi di ottenere?
Che cazzo vuoi da me?» tuona all'improvviso la sua voce, con ferocia, mentre quella creatura innocente e io siamo lì a terra
inermi, in fin di vita.
«Per favore salva almeno lei», lo supplico, «Tu lo volevi, mi
hai chiesto tu di avere un figlio con te.»
A quel punto mi guarda, con disprezzo e col suo solito sorriso
aberrante, sadico, perverso, mi dice: «Io volevo solo vedere fin
dove ti saresti spinta con me, era un gioco. Solo un gioco...», poi
prende la bambina da terra, si avvicina a una finestra, la apre e la
poggia sul davanzale gelido, si volta verso di me e urlando: «Ti
avevo detto che avresti dovuto abortire!»
E io grido disperata, mi sento morire.
Mi sveglio.
Perplessa mi guardo intorno, mi tocco d'impulso il grembo e
con un sospiro di sollievo sento che la pancina è ancora lì, la mia
bambina è ancora con me, è presto per nascere, sono viva e sono
nel mio letto, non è buio né freddo, e lui non è qui.
Era solo un brutto sogno.

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