Il colpo

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Alzò la canna della pistola e sparò.

La risata di Fieno si spense come una cicca dentro un bicchiere d'acqua.

Il fumo acre dello sparo invase l'auto. Il foro era netto, perfetto neanche una sbavatura.

Si vedeva un coriandolo di cielo.

Impassibile, Fieno rimise in moto la macchina. Partirono silenziosi  verso il loro destino.

La Callas ostinata, continuava a cantare.

<<Sei pronto?>> disse Fieno allo Slavo.

<<Come sempre.>> E sorrise.

La smorfia era da interpretare. Presa per il culo o verità.

Fieno non si scompose. Slavo neppure.

Fieno ripassò a mente l'operazione.

Dovevano recarsi in un parcheggio. Ci sarebbe stata la consegna. Guardò l'ora, erano in anticipo.  

Slavo prese un flaconcino dalla tasca e mentre lo stava aprendo, Fieno categorico:

<<Non ti serve quella merda!>>

Slavo senza dire una parola infilò il tutto in tasca.

Era il 1995.  Mi trovavo in Bosnia ed Erzegovina. Volontario nelle truppe paramilitari denominate le "Tigri di Arkan".

Srebrenica. Erano i primi di luglio e i fiori nei prati erano eccessivi.

Avevo passato sei mesi a uccidere, stuprare donne musulmane (stupro etnico), bruciare case e tagliare membri a ragazzi di vent'anni.

Era la mia guerra e ogni guerra da sempre è fatta di sangue e sperma, rabbia e rimorsi, almeno per chi è in prima linea.

Noi "Tigri" facevamo il lavoro sporco.  Eravamo il vecchio esercito di Annibale, eravamo i nuovi Crociati, eravamo il futuro.

Ero entrato in quella casa per primo. Sul tavolo, una donna: circa venticinque anni, aperta dal pube alla gola. Occhi aperti. Azzurri. Guardava il soffitto. Sul volto qualcosa che ricordava un sorriso. In un angolo, rannicchiato come un feto, un vecchio completamente carbonizzato. Più in la, la sua vecchia, finiva di arrostire sul fuoco di una grossa stufa. Gli diedi un calcio e finì a terra facendo lo stesso rumore di un cane annegato. Da tempo non avvertivo più nessun odore. Mi sedetti su una seggiola. Mi accesi una sigaretta.

Avevo sete. Ma non avevo voglia di bere. Ormai il teschio sotto la pelle non mi faceva più orrore. Tutto

accade, anche se non vuoi, i deboli devono morire, urlava al battaglione il generale Madlic, e lo diceva come un politico, come quelli che parlano in televisione, vestiti in giacca e cravatta e il completo di Armani rigorosamente scuro.

La sigaretta finì e la spensi senza far rumore sotto la suola dell'anfibio.

Stava venendo sera. Dalla finestra, il riverbero rosso degli incendi riempiva gli spazi bui della cucina.

Non so quanto tempo fosse passato. Non dormivo, ero sveglio, lucido ma la testa era vuota, nessun pensiero, niente, un animale su cui il tempo si srotola come una stella filante.

Sentii un gemito.

Veniva da sotto l'assito del pavimento.

Senza pensare tirai una raffica, due raffiche, tre..  fino a scaricare il caricatore.

Mi alzai.  Con il calcio dell'AK 47 sollevai una trave.

Due bambini abbracciati. Forse tre o quattro anni.

Erano lì, in quella tomba di terra arida.

Caricai l'AK 47 e mi sedetti.

Appoggiai il calcio del fucile a terra e appoggiai la canna alla gola.

Tutto sarebbe finito, un micron in più e tutto sarebbe finito, tutto si sarebbe sciolto nella terra, carne e dolore, ricordi e pensieri, rimorsi e perdono, e nessun unghia di cane mi avrebbe dissotterrato.




SINFONIA PER ANGELIDove le storie prendono vita. Scoprilo ora