3. KATE.

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In sei anni che vivo a New York non ero mai stata al Village nonostante il mio vecchio loft si trovasse solo a pochi isolati da qui. L'appuntamento era per le nove del mattino in St Lukes e sto aspettando già da mezz'ora. O meglio, il messaggio citava così, dato che il carissimo mister senza nome Rendal non ha risposto alle mie due telefonate ieri sera. Poi, con tutta la calma del mondo, intorno a mezzanotte mi ha scritto un messaggio dandomi appuntamento qui. Per fortuna ero appena tornata dalla cena da Jeremy e Dana. Gli ho anche risposto subito. E oggi mi sono messa pure uno dei miei tubini neri preferiti. Patetica, Kate. Okay, forse solo un po'. Ma essere quattro anni single non mi ha aiutato ad avere appuntamenti, dato che essere single da tanto tempo è come un repellente per gli uomini. 'Sei single da troppo, devi avere qualche rotella fuori posto', così non si arriva nemmeno all'appuntamento numero due. Non che questo lo sia. É solo un appuntamento da affari, Kate, non ricamarci sopra.

Passano altri dieci minuti e decido di andare via, anche perchè tra tre ore devo essere in turno e non posso aspettare uno che non ha nemmeno la decenza di avvisare che non verrà. Prendo il telefono e compongo il numero di mister Simpatia. Due squilli e la comunicazione viene interrotta.

Ma seriamente? Guardo il telefono e giuro che lo lancerei nel bidone di fianco se non fossi senza un dollaro sul conto. Lo richiamo e: 'Telefono spento'. Meraviglioso. E io che mi sono messa pure i tacchi. Quando sto entrando sull'app per prenotare un Uber, vedo un taxi accostare dall'altra parte della strada.

Ma tu guarda, mister senza nome ci ha deliziato con la sua presenza. Paga il tassista e mi fa cenno di raggiungerlo con la mano. Attraverso la strada e sono pronta a cantargliene quattro, ma quando vedo com'è vestito trasalisco. Ha un pantalone della tuta grigio e una maglietta bianca infilata dentro e...scarpe da tennis. Cazzo. Sembrerò una deficiente vestita così.

«Scusami, Kate. Ho fatto il più presto che ho potuto. Spero di non averti fatto aspettare troppo», dice, scostandosi una ciocca nera dalla fronte. Non riesco a smettere di fissarlo, è davvero bellissimo, e vestito così, con quest'aria semplice, lo è ancora di più.

Infilo il telefono nella borsa. «Tranquillo, ero appena arrivata», ridacchio. Bugiarda.

Lui lancia un'occhiata rapida al mio outfit. «Devi andare da qualche parte dopo?».

Annuisco vigorosamente per salvarmi da una delle più grosse figura di merda nella storia dei non appuntamenti.

«Sì, mi vedo con un amico prima di entrare in turno», mento, perchè chiaramente non so che scusa rifilargli. Lui cambia espressione per un momento e sembra quasi infastidito, poi torna subito a sfoggiare uno dei suoi sorrisi a trentadue denti.

«Seguimi», prosegue, facendomi strada sulla scalinata. «L'appartamento è al secondo piano. Non c'è l'ascensore, spero non sia un problema». Saliamo le scale dell'ingresso interno che sembrano più pulite di quelle di un ospedale. Mi guardo attorno e le pareti puzzano talmente tanto di soldi che mi sento a disagio. Cammino dietro di lui perchè il tubino non lascia molto all'immaginazione e non vorrei si facesse strane idee. Non come le mie alla vista del suo fondoschiena sodo e muscoloso.

Una volta al secondo piano, si ferma davanti alla prima porta a sinistra del corridoio.

«Siamo arrivati». Estrae una chiave dorata dalla tasca e fa per aprire. Non mi passa inosservato il dettaglio che leggo sul campanello, 'A. Rendel'. Ma non era l'appartamento di un suo amico? Cazzo. Improvvisamente penso che non sia stata una buona idea venire qui. E se fosse davvero un maniaco o un serial killer? Cazzo, Kate. Possibile che i documentari sugli assassini non ti abbiano insegnato niente? Sono ancora sul pianerottolo quando sento che mi chiama da dietro la porta socchiusa.

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