Capitolo quindici - Giulia, venerdì 16 settembre 2016

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Prendo la felpa dall'armadio, mi infilo le scarpe e mi allaccio le stringhe, avrei un milione di buone scuse per non farlo ma decido lo stesso di uscire a correre nonostante i sentimenti grigi e il cielo che diventa sempre più feroce. Mi chiudo il cancelletto alle spalle e faccio partire Runtastic, alzo subito il ritmo per scaldarmi un po' fino a quando mi viene il fiatone e rallento, c'è un vento freddo che non promette niente di buono, mi tiro su il cappuccio della felpa, inspiro, butto fuori, inspiro, butto fuori, realizzo di aver iniziato a correre un anno fa dopo la separazione, due sere a settimana, come una medicina che ho iniziato prendere quando il mondo è diventato un posto troppo brutto dove stare. Passo prima la cappella espiatoria e poi la Villa Reale, entro nel parco, è quasi sera, respiro l'autunno che sta per arrivare coi suoi gialli, i suoi rossi, i suoi marroni, il suo carico di nostalgia e il suo modo lento di spogliare gli alberi, inspiro, butto fuori, inspiro, butto fuori, mantengo la mia andatura un passo dopo l'altro per nutrire la sensazione di andare da qualche parte, evito lo sferragliamento metallico delle auto su viale Cavriga e prendo il sentiero sterrato a destra lungo il Lambro. Corro guardandomi le scarpe che vanno nell'unica direzione della vita, l'avanti, inspiro, butto fuori, inspiro, butto fuori, soffia vento da nord, mi sintonizzo sulla sua voce primitiva tra gli alberi, sul mio respiro e sul rotolio dei sassi sotto i miei piedi. Penso a Matteo e al fatto che sia tutto come suo padre e che quando ha capito che non sarebbe più tornato non mi ha più domandato nulla, penso a me e a quante volte ho sperato di vederlo rientrare all'ora di cena e di corrergli incontro abbracciandolo come se nulla fosse mai successo e di svegliarmi la mattina realizzando di aver fatto solo un brutto sogno. Il cielo si fa sempre più nero e violento, dovrei tornare indietro ma continuo, immagini ossessive e sempre uguali dello stesso film, due che si incontrano e che si piacciono e che un giorno si promettono amore eterno in una chiesa piena di fiori e che poi si comprano una casa stupenda, fanno un figlio e si circondano di cose sempre più belle e di baci della buonanotte e di carezze e di non ti preoccupare, e poi, proprio nel momento in cui sembrano aver ipotecato il futuro accade qualcosa di inspiegabile che rompe tutta quella stabilità che sembrava così infrangibile e destinata all'infinito, e a quel punto, quando ti accorgi che eri la sola a cui stava bene tutto così com'era, cadono i palazzi, e poi stai lì a guardarli crollare, impotente, sperando che tutto quell'incontrovertibile cadere un giorno finisca e ti domandi i perché e ti convinci che sei tu a non averli ancora trovati ma che arriveranno, sicuro, che tutto in fondo ha una spiegazione, sbatti la testa come una mosca contro il vetro nel tentativo di scappare da una scatola troppo piccola fino a quando ti arriva addosso un dubbio che ti investe come un camion in corsa che ti stronca le gambe e che ti taglia il respiro, e allora fai i conti col sospetto che un motivo non esista, che sia stato tutto un bluff, e consideri la possibilità di aver vissuto una lunga quanto assurda allucinazione, ma lo sai che non puoi accettarlo, perché nel momento in cui lo farai non potrai avere più nulla a che fare con l'amore e la tua vita diventerà solamente un conto alla rovescia verso il niente. Menzogne che crollano e che prendono a sassate l'anima, inspiro, butto fuori, inspiro, butto fuori, continuo a correre come antidoto al veleno, il vento maltratta le cime degli alberi e i pensieri diventano una specie di cantilena che mi si avvinghia contro, grossi e imprevedibili goccioloni gelati cominciano a piovermi addosso, ora ho freddo. Inspiro, butto fuori, inspiro, butto fuori, pensieri circolari che non riesco a mandar via. Flashback, ieri ho acceso il computer e sono rimasta per un po' a osservare il cursore che lampeggiava nel motore di ricerca, poi ho digitato la parola alcolismo: consumo compulsivo di alcol a scapito delle relazioni sociali del bevitore, come per le dipendenze da droghe, è considerato una malattia curabile. Sono rimasta per un po' a fissare il monitor ripercorrendo mentalmente a ritroso la telefonata di lunedì e ricalcandone i silenzi e le parole senza scampo, poi mi sono decisa a chiamare l'avvocato che si è occupato della separazione e a chiedergli l'indirizzo di Luca, infine ho chiesto a mia sorella se poteva andare a prendere Matteo a scuola dicendole che avrei fatto tardi al lavoro. Ricordo tutto nei minimi dettagli, prendo la gialla a Montenapoleone e incrocio la verde a Centrale, la carrozza è piena del rumore perforante e variabile del metallo contro il metallo che mi trapana il cervello, di volti indistinti e di contatti visivi con estranei, di odori delle persone che si mischiano alle voci e di dubbi che il mio amore per Luca sia stato molto più piccolo di quello per me, voglia di arrivare a una fine o a un inizio, le porte si chiudono come una ghigliottina, perdo l'equilibrio e sbatto contro un signore, chiedo scusa con un tono automatico e formale e assente come ero io in quel momento mossa da qualcosa che mi astengo ancora dal conoscere, luci al neon, chiudo gli occhi. "Garibaldi FS, apertura porte a destra, doors open on the right". Devo scendere, chiedo permesso a un uomo alto e magro che se ne sta fermo davanti alla porta, arrivo ai tornelli e salgo i gradini che portano all'uscita due alla volta, fuori trovo un grattacielo arrogante che rimane dritto come un soldato sull'attenti in attesa del riposo, non è la mia Milano questa, cammino attraverso una piazza Gae Aulenti piena di macchie sfocate e di convinzioni incrinate che si intersecano senza scontrarsi, ho l'indirizzo ma non so dove andare, chiedo indicazioni a un signore gentile dall'aria anonima e infelice a modo suo. Ci sono, controllo il civico, il grosso portone marrone è aperto, entro senza pensarci, l'ascensore mi sembra una gabbia, non conosco il piano quindi opto per le scale. Salgo la prima rampa e controllo i nomi sulle porte. Qualcuno sta scendendo, sento un brivido, mi paralizzo, l'idea che sia lui mi schiaccia esattamente come uno studente alla lavagna durante un'interrogazione a sorpresa, per fortuna è solo una ragazza con gli auricolari che scende i gradini due alla volta libera come il vento e che mi passa di fianco senza neanche notarmi. Faccio un respiro e vado avanti, secondo piano, controllo tutte le porte, proseguo indecisa fino al terzo dove mi fermo immobile come una quercia davanti a una stupida targhetta di ottone con scritto sopra il suo nome, Resti Luca, ho il cuore fuori giri, paura a ondate, fight or flight, lottare o scappare, alternative contrapposte. Rimango ferma e inerte per un tempo esteso e indefinito poi premo il dito contro il campanello e quel momento è lungo come un eterno mentre il mondo esce di scena. Non avrò nulla da dire, se aprirà lo guarderò negli occhi e gli dirò semplicemente ciao assaporando il gusto dolcissimo di qualcosa che ritrovi e che ritenevi persa. Solo che non apre. Suono un'altra volta e più a lungo della prima, mi guardo intorno per assicurarmi che nessuno mi stia guardando e avvicino l'orecchio alla toppa, da dentro non si sente nulla, se fosse lì dietro sono sicura che sarei capace di sentirlo e invece siamo io e una porta chiusa davanti con un nome scritto sopra in corsivo, per la prima volta sento che devo arrendermi e che il destino è troppo un oceano più grande del mio e che non ce la posso fare a combatterlo da sola.Inspiro, butto fuori, inspiro, butto fuori, testa che ogni tanto si prende una pausa, torno al presente, è diventato quasi buio ora, frassini che continuano a lottare contro il vento, un tuono mi squarcia l'anima, ne esco divisa in due, inspiro, butto fuori, inspiro, butto fuori, vado avanti a correre in un luogo inopportuno sotto ogni punto di vista, ha iniziato a diluviare e il cielo sembra sgretolarsi, non ho preso il K-WAY, sento le raffiche cariche di freddo e di paura arrivarmi addosso da ogni direzione, ondate d'acqua in faccia e fin dentro le mutande. Perdo l'equilibrio e mi ritrovo con la guancia sinistra nel fango e la sensazione di annegare come quando ti addormenti col raffreddore e hai il naso tappato, sto per svenire ma mi impongo di non farlo, accelerazione cardiaca, provo a calmarmi, ce la faccio, il polso mi fa un male tremendo, scaccio il dolore con tutta la forza che ho e mi rialzo dicendo a me stessa che non puoi morire ancora se sei già morta una volta. Ora piango senza barriere, perle di pioggia che cadono dappertutto, lacrime che mi piovono addosso e che lavano via lo sporco e che si mischiano alle mie che sono salate, via il dolore, via i ricordi, via la paura, via l'amore, via l'ossessione, via la tenerezza, via il senso di colpa e via tutto di tutto, non è colpa di nessuno se è andata così, torno su viale Cavriga, il temporale si è calmato, un signore in macchina abbassa il finestrino per chiedermi se sto bene, sto bene grazie, mi sento solo un po' stupida e contemporaneamente libera come non lo ero mai stata. Mai, la verità.

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