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Sono sul Lungarno degli Acciaiuoli e sento il via vai dei turisti che su Ponte vecchio si godono lo splendido panorama sull'Arno. L'acqua scorre veloce, si mescola ai passi delle persone e ai loro schiamazzi, io invece rimango in silenzio di fronte il palazzo vecchio stile dove abita mia nonna. Ho urlato in lacrime che mai sarei tornata a Firenze e invece eccomi qui, a contraddire la vecchia me di dieci anni fa, nella mia città natale.
Mentre osservo il portone, interdetta se entrare o scappare il più lontana possibile da qui prendendo il primo volo disponibile per l'Antartide, mi sembra di vivere in terza persona quanto accaduto tempo fa; scorgo una ragazza impaurita, ferita e furente. Le lacrime le annebbiano la vista, la rabbia il cervello. È disorientata e per questo manca il piccolo gradino una volta uscita dal portone. Casca rovinosamente a terra ma nessuno l'aiuta a rialzarsi, si solleva da sola. Le fa male la caviglia ma drizza la schiena, asciuga le lacrime col palmo della mano noncurante del mascara colato e si allontana senza guardare dietro di sé.
Sbatto ripetutamente le palpebre per scacciare gli ultimi contorni della figura e volgo lo sguardo al palazzo alto e imponente, dai larghi balconi contornati da ringhiere spesse in pietra, quello di mia nonna è al secondo piano, ricoperto da vasi colmi di fiori colorati. Il cielo è plumbeo e un lampo squarcia in due il cielo sopra la città. Deduco che fra poco pioverà, ha già iniziato ad alzarsi un vento pungente che mi fa rabbrividire nonostante indossi il cappotto più pesante che possiedo.
Eppure, nonostante il cattivo tempo che incombe, io non mi muovo. Rimango lì, immobile, come se le suole delle mie scarpe fossero incollate al marciapiede. Le persone continuano con la loro vita, intorno a me, mi sorpassano. Un uomo vestito con un con un completo elegante, valigetta alla mano destra e telefono incollato all'orecchio mi urta risvegliandomi dal mio stato di trance. Mi muovo meccanicamente, prima un passo pesante, poi l'altro. Piede destro, piede sinistro e di nuovo, la valigia mi segue rumorosa insieme alla mia ombra.
Una ragazza esce dal palazzo ed ha la premura di tenermi aperta la porta, la ringrazio con un sorriso timido e proseguo. L'atrio sembra immutato, esattamente come dieci anni fa. A sinistra sono appese le cassette per la posta dei condomini, a destra una bacheca è colma di biglietti e avvisi sulla manutenzione e pulizia del palazzo. Le mattonelle del pavimento sono usurate e stonano con le pareti da poco verniciate color crema.
Quest'anno i condomini hanno deciso di fare le cose in grande; l'albero di Natale è posto in un angolo cieco del corridoio ed è maestoso rispetto a quando ero ragazza io. Alto e con delle splendide foglie verdi ricoperte di brillante neve, le decorazioni sono delicate e per nulla esagerate come quelle che adorava sistemare la signora Emilia del secondo piano quando ero più piccola. 
Il rosso e il verde smeraldo sono i colori predominanti; le palline di diverse grandezze sono disposte in modo che non ci siano buchi vuoti sull'albero, bastoncini zuccherosi e pigne vere impreziosiscono e donano profumo all'ambiente, offrendomi un senso di tranquillità.
Questo si che è un albero! Niente a che vedere con quel coso plasticoso e spelacchiato che tiro fuori per le feste nel mio appartamento a Milano; decorato con palline microscopiche differenti fra di loro, un festone oro – odio l'oro, preferisco l'argento – e una stella come punta che pende sempre a destra e minaccia di lasciarsi cadere sul pavimento da un momento all'altro.
Di fronte quest'albero tanto bello mi vergogno di ciò che ho in casa, quella è l'unica decorazione nel mio appartamento, la tiro fuori il ventiquattro mattina e il venticinque sera è già sparita dentro un sacchetto nero dell'immondizia e riposta nell'angolo più buio dell'armadio.
Eppure un tempo non ero così, amavo il Natale e l'addobbare casa era la mia parte preferita della festività, superava persino il momento dell'apertura dei regali.
Con mamma e papà era splendido addobbare casa; papà ed io montavamo l'albero ramo per ramo e ne aprivamo ogni foglia, poi passavamo a sistemare le luci. Nessuno di noi due però si permetteva di decorare l'albero, quello era un compito di mamma che con pazienza e dedizione tirava fuori dalle scatole le sue migliori palline in vetro e le posava dolcemente fra le foglie, fino a far diventare l'albero pomposo di palle bianche e rosa antico.
E poi il presepe, mia madre ci teneva molto. Le statuine che aveva comprato erano di ottima qualità e con dei bellissimi volti dipinti, la capanna invece l'aveva realizzata lei. Mia madre era una donna creativa... ed io ho preso da lei.
Sospiro rassegnata, ormai quei bei momenti non sono altro che un lontano ricordo. Improvvisamente sono di nuovo tesa come quando ho preso posto in treno. Le spalle e il collo sono così rigide da farmi male e mi sento soffocare. È stata una pessima idea venire qui, eppure non posso far altro che proseguire oltre. La valigia sembra pesare il doppio se non il triplo e faccio difficoltà a trascinarla verso l'ascensore, quando le porte meccaniche si spalancano ci spingo con sospetto la valigia all'interno e premo il pulsante  del secondo piano, uscendo velocemente da lì.
Mai prenderò queste gabbie in metallo piccole quanto quello che a Milano spacciano per trilocale amplio, ma almeno posso salire tranquillamente le scale senza dover portare in mano il peso della valigia. Sono già abbastanza stremata dal viaggio e nervosa per il ritorno a Firenze, non riuscirei a trascinare ancora la valigia con me.
Il tintinnio dei miei stivaletti sulle scale, il respiro accelerato e l'ascensore che sale sono gli unici rumori che si possono udire, cammino lentamente, non ho fretta.
La valigia mi aspetta dentro l'ascensore aperto già da un po' quando arrivo sull'atrio del secondo piano, avanzo verso la porta di casa della nonna e osservo con stupore il piccolo alberello in legno che avevo creato quando ero piccola, non pensavo che fosse ancora intatto e che mia nonna la conservasse ancora.
Mi trema la mano mentre avvicino il dito al campanello e balzo all'indietro appena premo il pulsante neanche avessi preso la scossa. Attento impaziente alla porta e invece tutto tace, nessun passo, nessun rumore.
Sono le tre del pomeriggio e mia nonna non è solita andare a letto a riposare, tutt'altro, ha il suo appuntamento fisso con Beautiful, a seguire Maria de Filippi e infine le serie turche che da un paio d'anni hanno iniziato a trasmettere in televisione. Busso un'altra volta, tenendo premuto ancor di più il dito sul campanello, nulla. Solo silenzio che viene smorzato dal mio sonoro sbuffo. Ha le stampelle ed ha detto che riesce a camminare, quindi non capisco perché non apra la porta. Premo ancora il campanello, e ancora, finché l'ansia non assale i miei pensieri. Possibile che le sia accaduto qualcosa? sia caduta e abbia sbattuto la testa? La sola idea mi fa venire la nausea a tal punto che sono costretta a reggermi sul muro.
Sbatto la mano sulla porta fino a sentirla pizzicare nella speranza che mia nonna venga ad aprirmi.
<Che cosa sta facendo?> domanda una voce profonda dietro di me. Mi blocco con la mano a mezz'aria poi drizzo la schiena e mi volto verso la persona che ha parlato. Sono esausta, stremata dal viaggio e dal ritorno a Firenze, preoccupata per mia nonna... ci mancava solamente il vicino ficcanaso a farmi l'interrogatorio.
Innervosita, trovo la calma necessaria per rispondere pacata a quest'uomo impiccione: <Senta, non so chi sia lei, nemmeno m'interessa> poggio le mani sui fianchi <Ma dovrebbe davvero evitare di fare il pettegolo e sparire>
Pronta a bussare di nuovo il campanello, mi blocco appena sento la sua risata. L'uomo di fronte a me non solo ha una splendida risata ma anche un sorriso perfetto che mi innervosisce.
<Non credo di essere pettegolo, ho solamente posto una domanda, non capita tutti i giorni di vedere una donna agitata che prende a pugni una porta. Lo sa vero che dietro questa porta non troverà il suo uomo con l'amante?>
Sento le guance andare a fuoco per il nervoso <Chi si crede di essere!> sbotto facendo un passo verso di lui. Quest'uomo... l'ennesimo imprevisto che trovo in questa giornata. Sono pronta ad urlargli tanti insulti variopinti, agguerrita a lanciargli anche la valigia in testa pur di farlo scomparire, quando dall'appartamento accanto esce... niente di meno, mia nonna. Saetto lo sguardo fra lei e lo sconosciuto, la bocca talmente tanto spalancata che quasi tocca terra. Boccheggio qualcosa d'incomprensibile, mentre le due persone mi guardano aspettando che mi riprenda dallo shock.

Ciaoo, ecco qui il nuovo capitolo!
Vi ringrazio tutti per i commenti ricevuti, sono felice che la storia vi stia piacendo. La nostra Amanda è arrivata sana e salva a Firenze ma la nonna ha già iniziato a combinare i suoi guai... chissà cosa avrà fatto?

NATALE AL SAPORE D'AMOREDove le storie prendono vita. Scoprilo ora