14. KATE.

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KATE.

Non vedo ne sento Alex da quattro giorni. Mi ha chiamato e lasciato alcuni messaggi in segreteria ma non gli ho risposto.

Sinceramente? Può andare a farsi fottere.

Sono stufa del suo atteggiamento passivo - aggressivo, sono stufa di non capire che cazzo stia succedendo e del perché mi sia fatta convincere da uno sconosciuto ad andare a vivere a casa sua.

Che cazzo, Kate.

Per non parlare del fatto che, a quanto pare, il posto che avevo trovato non è più disponibile visto che la coinquilina ha ben pensato di ospitare la cugina e l'appartamento non è più in affitto.

Grazie tante per avermi avvisato due giorni prima della firma del contratto.

Quindi sono nuovamente punto e a capo con la ricerca di una casa.

Non ne posso più. Sono davvero esausta.

Cosa deve fare una per avere almeno una giornata serena?

***

Un'altra settimana é passata senza vedere Alex - nonostante mi intasi il telefono di chiamate e messaggi - e ora sono reduce da un turno di ben cinque ore.

Ho fatto un'ora di pausa e me ne restano ancora tre - deprimenti - alla fine.

Credo di avere anche la febbre perché alla quarta ora ho iniziato ad avere giramenti di testa mentre sistemavo gli scaffali del magazzino.

Sto servendo una coppia di adolescenti quando vedo i capelli biondi di Brian varcare la porta a vetri del locale.

Che diavolo ci fa lui qui?

Fanculo. Ci manca solo lui oggi.

Vedo che avanza verso il bancone -verso di me- stringendo un cappotto di cashmere marrone nell'incavo del braccio.

Indossa un completo elegante sugli stessi toni, solo un po' più chiari del soprabito. Ha anche una valigetta con sé che gli conferisce un'aria importante. Probabilmente è venuto direttamente dal tribunale.

«Ciao, Kate». Mi sorride con la lingua tra i denti. Il suo marchio di fabbrica.

Devo ammettere che alla luce del giorno è ancora più bello.

Capelli color sabbia, occhi verde smeraldo.

La giacca del completo abbraccia i suoi muscoli in maniera forte e decisa e non posso fare a meno di pensare che sotto la camicia nasconda una fila di addominali perfettamente scolpita.

Dove eravamo? Ah, sì. Caffè, Starbucks, lavoro. Ci sono.

Gli sorrido a mia volta mentre i due ragazzini ritirano lo scontrino e lui si fa spazio prendendo il loro posto.

«Ehi. Che ci fai qui?» dico, sistemando il barattolo delle cannucce. Mi è già caduto tre volte oggi e sono a un passo dal lanciarlo per strada.

Sì, ho decisamente la febbre.

Brian fa spallucce. «Mi andava un caffè...» indica il tabellone. «E poi volevo vederti.

«Sei carina con il berretto», ammicca, piegando il labbro in un sorriso sghembo.

Arrossisco per il complimento e ho le guance in fiamme.

O forse è perché sto male? Ormai non ci capisco più niente.

«Come facevi a sapere che lavoro qui?», chiedo, invece.

Unthought of LoveDove le storie prendono vita. Scoprilo ora