Capitolo secondo

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Guardai il mio riflesso nel vecchio specchio che tenevo in camera. Era pieno di aloni, con un angolo rotto e una crepa che tagliava il mio viso in due. Attraverso le crepe, nonostante tutto, scorsi il viso a forma di cuore affondare nella massa riccia e castana dei miei capelli, gli occhi grandi che mi hanno sempre distinta erano accompagnati da profondi solchi. Non avevo dormito. Le parole del gatto si erano insinuate dentro la mia testa come una litania, ripetendosi tutta la notte in una macabra filastrocca.
Vieni da me se lo desideri davvero.
Non riuscivo a togliermelo dalla mente. Aprì il rubinetto e lasciai correre l'acqua per alcuni secondi prima di lavarmi la faccia. Poi mi diressi verso i miei indumenti, accatastati su una sedia vicino il letto, e iniziai a vestirmi. Avevo solo tre abiti: quello buono per le occasioni e due abitini dalle gonne lunghe fin sotto le ginocchia di colore marrone per tutti i giorni, solo che ormai ero cresciuta e la gonna si alzava un po' troppo quando camminavo. Durante la guerra nessuno ci badava, ma negli ultimi dieci anni ogni ragazza tentava di mettere in mostra quanto più potesse, sfoggiando abilità culinarie, graziosi vestiti, trucchi e oggettini vari, in una irrefrenabile corsa al matrimonio e all'ambito, quanto immaginario, premio di casalinga perfetta. Io non sarei mai rientrata in questa categoria. Avevo solo due oggetti che per me erano di valore: il fazzoletto azzurro che indossavo sulle spalle e una spilla con cui lo chiudevo sul petto. Erano gli unici ricordi dei miei genitori. Prima di morire per un male mio padre me li aveva donati, mi amava e quel gesto voleva essere la sua richiesta di perdono per avermi mandata di casa in casa fin da bambina. Accudire i bambini dei ricchi quando io stessa lo ero non era semplice, così come non lo era incassare i colpi delle madri quando sbagliavo. Un raggio di sole attraversò le veneziane e mi colpì il viso, era quasi l'alba e dovevo correre alla pasticceria. Abbassai lo sguardo su una boccetta di profumo che tenevo sul comodino, era una fragranza alla zagara, come quella di Giovanna.

Prima di arrivare alla pasticceria dei signori Marchese mi fermai al crocevia della sera precedente. Sentivo il bisogno di osservare e capire se ciò che era accaduto era frutto della mia mente stanca o fosse vero. La strada si presentava in tutta la sua monotona quotidianità. C'era un chiosco, addobbato alla meno peggio, che arrostiva castagne e l'odore impregnava l'aria. Donne e bambini affollavano la piazza matrice di fronte alla chiesa. Era domenica e tutti indossavano il vestito buono per la messa. Chissà perché, se ciò che avevo visto era reale, il gatto aveva scelto proprio una strada di fronte un luogo sacro. E se fosse stato Dio a mandare l'animale? L'Eterno non mi aveva mai risposto, forse si era ricordato che oltre alla borghesia  c'era una classe invisibile di persone che strillava aiuto senza esprimerlo a parole. Sospirai, non c'erano segnali della bestia né di altre creature simili. Guardai avanti e andai incontro al mio calvario.
Entrata nel negozio l'odore di dolci e pane mi investì. Sulla destra un carretto siciliano adibito a mobile era colmo di dolci tipici del periodo e colorava l'intero ambiente. Fissai quelle riproduzioni in pasta di mandorla di frutta e ortaggi e mi salì un insano desiderio di prenderne uno e mangiarmelo.

«Silvia, cosa hai combinato?»

La voce stridula di Giovanna spezzò il flusso dei miei pensieri. C'era qualcosa che non andava e lo stomaco iniziò a farmi male. Mi precipitai nel retrobottega dove, davanti a uno scaffale colmo di bottiglie, Giovanna fissava i cocci di vetro sparsi sul pavimento.

«Hai rotto ben cinque bottiglie del nostro miglior vino! Sciagurata.»

«Non sono stata io, sono appena arrivata.»

«Cos'è tutto questo baccano? Per l'amor del cielo, gioiuzza* mia, devi andare a prepararti, non perdere tempo con queste faccende. Ci penserà tuo padre.» Madonna Annuzza si fece avanti in un fruscio di stoffa pregiata, teneva i capelli biondi raccolti in uno chignon. Il suo sguardo vagava continuamente dalla figlia al piccolo specchio che teneva in mano, io mi sentivo trasparente.

«Non vedete, madre, cosa ha fatto? Non vuole nemmeno assumersi le sue responsabilità.»

La signora sbuffò, poi cinse con le mani le spalle minute della figlia.

«Gioiuzza, non devi mettere il broncio o ti spunteranno le rughe.»

Giovanna continuò a fissarla con insistenza.

«Costavano proprio tanto, eh?»

«Sì, madre.»

Finalmente mi guardò. Un'occhiata che esprimeva molta più noia e fastidio che rabbia.

«Mio marito spende un capitale per mantenere questo posto, credi che i soldi ci arrivino dal cielo? Ringrazia che ci sia io a risolvere la faccenda e non lui. Dimmi come intendi ripagarci.»

«Non lo farò. Le bottiglie erano già rotte quando sono arrivata e la signorina era qui!»

Anna non sapeva come ribattere. Era chiaro che discutere non fosse un'arte a cui era avvezza, né che fosse in grado di sostenere un carattere più deciso. Sgranò i grandi occhi azzurri e bofonchiò qualcosa di incomprensibile. Giovanna, al contrario, non perse tempo a prendere in mano la situazione. Incrociò le braccia al petto e si sforzò talmente tanto di piangere da diventare rossa.

«Sta cercando di accusarmi, vuole farti credere che io le abbia rotte per dispetto.»

Come una specie poco intelligente di allodola, Anna si voltò verso di me con sgomento.

«Credi che mia figlia abbia rotto della merce tanto pregiata per noia? Questo affronto è imperdonabile.»

Il bruciore sulla gota arrivò improvviso, seguito dal rumore sordo del palmo di Giovanna contro la mia pelle. Caddi, indebolita e magra com'ero, singhiozzando.

«Non riceverai paga finché non avrai saldato il tuo debito e non provare a cercare un altro lavoro. Il paese è piccolo, parleremo con tutti i commercianti di questo tuo oltraggio.»

Disse così e mi lasciò a terra. Madonna Anna seguì la figlia e io rimasi immobile, impotente. Per il resto della giornata la mia mente fu rivolta solo a un unico pensiero: il crocevia. Quando finalmente fui libera, ancora a tarda notte, scappai verso il punto della sera precedente. La testa girava vorticosamente,  su me stessa cercando l'animale ma di lui non c'era traccia. La guancia faceva male.
Le parole di Giovanna facevano male.
La mia vita mi distruggeva.
Giravo e giravo senza trovarlo, il cielo buio mi osserva in silenzio e, nella mia testa, le finestre delle case iniziarono ad assumere la forma di occhi puntati su di me.

«Aiutami, aiutami, aiutami!» Gridai. «Ho bisogno di qualcuno che… mi aiuti.»

Tutto taceva. Nessuna risposta, il miagolio basso e fastidioso non intervenne in mio soccorso. C'ero solo io, al centro del crocevia con la mia angoscia.

Ciò che accade il mattino seguente mi sconvolse.
Arrivai alla pasticceria e trovai una folla immensa di persone che si accalcavano davanti la porta. La pasticceria era chiusa e nessuno riusciva a capire cosa stesse accadendo. C'era chi tentava di sbirciare dentro e chi bussava chiedendo chi, poco prima, avesse urlato spaventando il vicinato. Mi feci avanti spingendo e sgomitando quando, passando inosservata come sempre, mi recai alla porta di servizio. Avevo le chiavi ed entrai.
Le luci del retrobottega erano spente, ma il pasticcere stava davanti la porta che conduceva al locale e  singhiozzava, teneva la testa chinata. Una volta dentro, la vidi.
Giovanna era immobile, stesa a terra, gli occhi spalancati e vitrei. I capelli sotto di lei formavano un tappeto di boccoli senza più luce.
Non sorrideva più.
Il suo fastidioso e irritante sorriso era morto su quelle labbra cadaveriche e non sarebbe più tornato.
Il mio, invece, era appena spuntato agli angoli della bocca.

GlossarioGioiuzza mia= "gioia mia" un diminuitivo affettuoso utilizzato spesso in siciliano

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Glossario
Gioiuzza mia= "gioia mia" un diminuitivo affettuoso utilizzato spesso in siciliano.

Il Crocevia [CONCLUSA] Ciclo Gotico Siciliano V.2Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora