5. Maschera d'angelo

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Il cielo grigio slavato del pomeriggio scivolava in alto come un languido lenzuolo, instillando il seme dell'indolenza negli animi degli abitanti. Non erano passate che poche ore dal ritrovamento del corpo di padre Naio che già una strana maledizione pareva aver colpito la città: le finestre, solitamente lasciate aperte a rinfrescare le pareti delle case fino all'ora di pranzo, erano state chiuse non appena si era diffusa la notizia, quasi che la morte fosse nell'aria e potesse piombare in casa da un momento all'altro, come un colombo ferito. Le strade, poi, il teatro pulsante della vita di Patharnum, sempre piene di pubblico, si erano andate via via spopolando, tanto che i negozianti avevano deciso di anticipare la chiusura. Tutta l'euforia, il terrore, perfino l'eccitazione che la morte del giovane prete aveva causato erano già scemate, e una muta stanchezza cominciava a diffondersi negli animi degli abitanti. Era il placido torpore della sera, favorito dal vento omertoso che soffia solo nei paesi più piccoli e isolati.

Di tutto questo risentivano, seppur in minima parte, anche le due donne sedute nel terrazzino che affacciava sul cortile interno del vicolo cieco. A separare la poca distanza che intercorreva tra loro c'era un tavolino in ferro battuto rivestito di un centrino in avorio di fattura artigianale. Le stesse mani che l'avevano fabbricato si muovevano ora rapide, armate di due ferri che sembravano sfidarsi a duello tra fili di lana impalpabile. Lerice lavorava a maglia fin da quando era bambina, un'eredità diretta della madre, che per tutta la vita era stata una cosa sola con i ferri al punto da portarseli nella tomba. Quelli che impugnava ora la figlia erano i ferri di riserva, più scomodi e rigidi, e che tuttavia nelle abili mani di Lerice apparivano eleganti e flessuosi come bacchette cinesi.

Elaphe, dal canto suo, teneva in grembo un piccolo libro rivestito di una graziosa copertina di seta che ne celava il titolo. Fuori l'aria era incredibilmente mite per essere febbraio, quasi che perfino il freddo si fosse stancato di persistere in quella triste giornata. Ma non era per godere del clima che Lerice aveva proposto di rifugiarsi in terrazza. Aveva lanciato l'idea dopo pranzo, fingendo disinteresse, certa che Minio avrebbe declinato l'invito preferendo impiegare le ore del primo pomeriggio in un sonnellino ristoratore. E così era stato. Non aveva contemplato però la possibilità che Elaphe estendesse l'invito anche all'amico di vecchia data ben noto in famiglia: era infatti così che Lerice si figurava da sempre il silenzio della cugina, tanto ostinato da diventare un tratto caratteristico, come un fedele accompagnatore che non mancava mai di portarsi dietro, perfino quando risultava sgradito.

Ma non a lei. Aveva imparato a conoscerlo, anche ad amarlo, allo stesso modo in cui amava i suoi capelli neri raccolti sulla nuca secondo una moda che non conosceva, o le piccole raggere di rughe che le circondavano le sopracciglia quando le aggrottava. Eppure, mai come in quel momento desiderò che sparisse una volta per tutte e le lasciasse sole, anche per la durata di un semplice minuto.

Aveva così tante cose da dirle. In tutti quegli anni di lontananza non c'era stato un giorno in cui non era accaduto qualcosa che avrebbe voluto condividere con lei. Per un po' le lettere avevano sopperito a quella mancanza, ma ben presto si erano rivelate inadeguate, troppo sottili per contenere tutti i frutti del suo mondo interiore. Così Lerice aveva deciso di metterli da parte, stipando ogni pensiero, riflessione, notizia, in un angolo dedicato della mente. Il suo baule di tesori. Solo ora che la cugina le negava quell'intimità tanto agognata si rendeva conto di quanta ruggine si fosse accumulata sui cardini, di quanto il legno fosse vecchio e tarlato, e del fatto che molto probabilmente aveva perso la chiave.

D'un tratto, prima ancora che le labbra, furono le mani ad agire, intervenendo sul silenzio. Si fermarono, lasciando che i ferri si incastrassero tra loro.

«Perché non mi racconti qualcosa della Città? Com'è la vita lì?»

Sul finire della domanda le labbra di Lerice tremarono impercettibilmente. Ecco che lo faceva di nuovo: invece di parlare per prima finiva per spingere gli altri a confessarsi, negandosi da sola il conforto dell'ascolto. Anche questo era un lascito di sua madre, forse il più ingombrante di tutti, una maledizione che la condannava a vivere la propria felicità solo nel riflesso dello sguardo altrui.

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⏰ Ultimo aggiornamento: Jan 23 ⏰

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