1. Agios o Theos

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La piccola croce in ferro battuto si stagliava contro il cielo denso di nuvole grigie come un dito ammonitore. Il resto del corpo era costituito dal profilo di una chiesa eroso qua e là dal tocco di vento e piogge. Si trattava di una struttura semplice realizzata in pietra grezza e legno, nient'altro che una chiesetta di campagna, posta al centro di un paese arroccato sulla cima erbosa di una collina. Tutt'intorno, come denti storti, si ammassavano le case delle poche anime disgraziatamente giunte in quell'aspro angolo di mondo. Lì il trambusto delle grandi città era cosa ignota, e ancor di più lo era il frenetico ticchettio delle novità, bandite ai confini delle campagne come loschi stranieri. A Parthanum – questo il nome del paese – la vita seguiva il lento e rassicurante ritmo della natura. Il richiamo dell'oro mattutino destava come un comando militare contadini e bottegai, che al termine di un'estenuante giornata di lavoro finivano per aggrapparsi alle gonne scure della signora del silenzio e coricarsi nei rispettivi giacigli, la preghiera della sera spezzata sulle labbra.

Da che era stata fondata sulle rive del fiume Nure da un gruppo di cacciatori di cervi albini più di un millennio e mezzo prima, le cose a Parthanum erano sempre andate in quel modo. Ineccepibilmente. Mai che una stagione facesse le bizze pasticciando con le intemperie, o che i capricci del terreno minassero il raccolto. A Parthanum si moriva solo da vecchi; da bambini si cresceva sani e robusti per affiancare i genitori nelle attività di famiglia. Se qualcuno si curava anche di essere felice, poi, era tutt'altra questione, considerata di scarsa rilevanza.

Il destino è un filo teso dalla Provvidenza.
Così stava scritto sulla targa appesa alla porta della stanza di padre Georg, l'unico elemento decorativo presente in tutta la camera, vistosa come una macchia di peccato sull'anima di un santo. Per questo l'aveva attaccata sul lato interno, così da essere l'unico a poterla rimirare: per pudore, certo, ma soprattutto per gelosia. Quella targa non era una semplice tavoletta di legno; incisa sulla superficie liscia del frassino c'era, per padre Georg, la più antica delle verità. La sua Bibbia personale.

Le mani di padre Georg si congiunsero da sole in preghiera in un intreccio magnetico. Con le labbra appoggiate alla pelle assottigliata dal tempo, cominciò a recitare la consueta preghiera del risveglio. Fuori, quasi a volerlo accompagnare, un merlo aveva intonato la sua ode all'aurora appollaiato sul ramo più alto del melo. Un sospiro, e cominciò.

Agios o Theos, agios ischyros, agios athanatos, eleison imas.

Le parole serpeggiavano tra le labbra di padre Georg, lente e inesorabili come un segreto. Prese un respiro profondo, lasciando entrare nella sua mente ogni sillaba nella speranza che ne mondasse le pareti imbrattate di quella visione. Finora, a furia di recitare le preghiere del mattino, era riuscito a cancellare dalla memoria solo il suo profumo, ma tutto il resto continuava a tormentarlo come un'apparizione fantasmatica. D'un tratto riapparvero i capelli rossi, lucidi e rari come una gemma nascosta nel cuore della terra. Rivide le proprie mani affondarvi avidamente, guidate da una forza che rispondeva al nome di un padrone che aveva giurato di rinnegare. Era stato quel rosso ad accecarlo, risvegliando in lui il demone del desiderio. Padre Georg lo sentì persino in quel momento sibilare dal petto raggrinzito, tra le dita secche e rugose, fino a raggiungere le labbra sottili. Strinse le palpebre con maggiore forza e continuò.

Agios o Theos, agios ischyros, agios athanatos, eleison imas.

Il ricordo dei lembi di pelle nuda ammiccanti come specchi incrinò la sua voce. Quella pelle bruciava contro la propria e gli danzava attorno agli occhi come una fiamma infernale, chiamandolo a sé. Rivide prima i polsi sottili, poi le caviglie dai malleoli occhieggianti, e infine le spalle, due sfere perfette attorno alle quali gravitavano le sue dita affamate.

Aghios o Theos, agios ischyros, agios athanatos... Due parole lo separavano dalla salvezza eterna, ma la preghiera precipitò dalle labbra di padre Georg come un pettirosso trafitto in volo da una freccia. Fuori, un grido acuto premeva contro i vetri della finestra. Era la voce della perpetua. Come in sogno, padre Georg vide le proprie mani, improvvisamente colte da un candore lunare, tendersi in avanti per aprire le imposte. Si sporse, e il vento gelido di metà inverno lo travolse asciugandogli il velo di sudore provocato dalla visione. Ma il grido si era spento, risucchiato dalla brezza. E tuttavia la causa che lo aveva scatenato era ben visibile a una decina di metri dalla chiesa, cullata dalle placide correnti del Nure appesantito dal freddo. Con le vesti sacerdotali strappate in più punti, stretto nell'abbraccio mortale di due tronchi, c'era il giovane corpo esanime di padre Naio.



N.d.A.: Questa è la prima volta che pubblico qui una storia originale. Ed è anche la prima volta che scrivo un giallo, ovviamente mischiandolo ad altri generi. È nato tutto da un simbolo che in qualche modo è sempre stato presente nella mia vita (e tra le mie idee): i serpenti. Forse i più astuti fra i cacciatori, e anche i più biasimati, possiedono inevitabilmente un fascino radicato, ancestrale. La Bibbia ci parla della primissima interazione tra l'essere umano e il serpente. Ma cosa succede quando queste due creature si uniscono in una metamorfosi che le fa diventare un intero?

Ecco com'è nata Sicut Serpentes.

Sarò felicissima di ricevere le vostre impressioni se ne avrete voglia.

Serpentescamente vostra,
nephaelibatha

Sicut serpentesDove le storie prendono vita. Scoprilo ora