La freccia mi sfiorò il viso, sibilando fra i miei boccoli dorati, e centrò l'obiettivo. Per l'ennesima volta.
Un lieve sorriso mi dipinse il viso con una punta di orgoglio, per poi scomparire in un attimo. Le ombre della sera iniziavano ad oscurare la foresta.
"Mia madre si starà chiedendo dove sono". Guardai il sentiero nascosto tra i fitti rami, presi la mia faretra e m'incamminai tra il percorso delimitato da rocce scure.
Canticchiando, non mi accorsi nemmeno che arrivai davanti alla mia piccola casetta incastrata nell'edera. E di mia madre, ovviamente.
Mi tolsi con delicatezza l'arco dalla spalla, appoggiandolo insieme alle frecce dietro a un cespuglio. Mia madre, Daphne, non sapeva che adoravo tiro con l'arco, perciò per far pratica mi dovevo nascondere da lei. Non capivo cosa ci trovava di male, dopotutto c'erano così tanti Achei che lo praticavano.
Presi uno spesso laccetto bianco per cercare - in qualche modo -, di domare la mia folta chioma.«Ehi, mamma» varcai la soglia, facendole un piccolo cenno di saluto.
«Ciao Phoebe» alzò gli occhi dal telaio, sorridendomi, «Dove sei stata?»
«Ero in città» dissi evitando il suo sguardo interrogatorio, in modo da non farle capire che stavo mentendo. «Ieri sono arrivati dei nuovi mercanti in piazza, vendono dei bellissimi vasi» aggiunsi. Be' questo era vero.
L'altra mattina avevo visto un'anfora piena di colori sgargianti. In primo piano aveva dipinto sopra un polpo bluastro. Era bellissimo. I numerosi tentacoli si espandevano sui frammenti in argilla: non avevo mai visto un disegno così dettagliato. E così vivo. Sembrava che i suoi occhioni stessero chiedendo aiuto, come un cucciolo spaventato.
Mi sedetti su un piccolo sgabello in legno, guardando fuori dalla finestra. Un fresco vento mi colpì il volto e io chiusi gli occhi, immaginandomi correre libera su quelle lontane colline. Un sogno troppo lontano dalla realtà...
«Domani mattina porta quei due sacchi di grano al mercato».
«Sì, mamma».
«È il grano che abbiamo macinato tre mesi fa» mi disse, «Sai, quest'estate è stata più rigogliosa delle scorsi».
Stava parlando del nostro piccolo orticello, accanto alla casa. Era minuscolo, ma riuscivamo a ricavare abbastanza cibo.
Il rumore del telaio e i lievi fruscii tra i filamenti di lana, i quali mia mamma intrecciava con massima cura, continuavano a irrompere nelle mie orecchie. Ormai ero abituata a questo suono, così familiare da diventare parte della famiglia. Lei adorava intrecciare abiti e fabbricarne sempre di nuovi, anche quando ero una piccolissima fanciulla amava farmi vestiti su misura - i quali poi non mettevo, dato che non andavo mai da nessuna parte -.
La guardai ammaliata. La sua bellezza riusciva ad affascinare chiunque, ma non era quel tipo di splendore da lasciare gli altri a bocca spalancata, no. Più che altro era quella bellezza elegante e leggiadra che riscaldava il cuore: i suoi gesti precisi e delicati non facevano altro che aumentarla. Aveva lunghi riccioli color miele - esattamente come i miei, con l'unica differenza che i suoi erano sempre ben ordinati e intrecciati, mentre i miei parevano serpenti selvaggi impossibili da domare - e due lucenti occhi chiari, i quali le conferivano uno sguardo limpido e saggio. Era una bellezza impossibile da invidiare, ma che allo stesso tempo tutti avrebbero voluto possedere. Osservare i suoi movimenti armonici e sereni mi incantava ogni volta; mi perdevo tra le sue gesta calme e i bellissimi intrecci, abbandonandomi tra quella sottile precisione che più volte sfiorava la perfezione.
«Ehi, vieni qui» mi incitò sorridendomi, probabilmente aveva notato che la stavo guardando con attenzione. Non fu la prima volta che provò ad insegnarmelo, ma io continuavo a non capire: erano troppi incroci e nodi confusi.
«Prima o poi dovrai impararlo» mi disse con un filo di voce, come se non potesse sprecarne altra per parlare. Era troppo intenta nel suo lavoro. «Sai perfettamente che questo è il lavoro delle donne, nessun spartano vorrà come moglie una ragazzina che non è abile nella tessitura». La guardai di sbieco. Sapeva che non volevo sposarmi: non volevo legarmi a nessuno, e per di più non ci tenevo a diventare la servetta di nessun uomo scorbutico. Però, lasciai perdere - questo discorso l'avevamo già affrontato troppe volte -.
«Non riesco... È troppo complicato».
«È proprio per questo motivo che devi continuare a provarci» mi osservò determinata e dolce allo stesso tempo, nei suoi occhi chiari potevo intravedere le onde delle sue parole non dette infrangersi una sull'altra. «Se qualcosa è complicato, non significa che è impossibile. Ed è proprio perché va oltre le tue capacità, che devi metterti alla prova continuamente».
Ascoltai attentamente le sue parole; capì che dietro ad esse c'era un significato più profondo, più nascosto. Voleva dirmi qualcosa, senza però essere troppo esplicita. Voleva lanciarmi dei messaggi, senza farmeli capire immediatamente. Soppesai nuovamente le sue verba, tuttavia non riuscii ancora a comprenderle del tutto.
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Ombre sull'Olimpo
FantasyCosa potrebbe accadere se ci fosse una seconda guerra di Troia? Che succederebbe se i sopravvissuti fossero assetati di sangue e chiedessero vendetta ai loro nemici? Come cambierebbero i loro destini, già segnati da millenni di storia? Che ruolo a...