Capitolo 3

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pov: EMILY 


Un brivido di freddo corre lungo la mia schiena appena i miei piedi nudi toccano il pavimento in marmo della cucina.

Le finestre della stanza sono appannate e il giardino sul retro è coperto da un manto di neve soffice.

Questa notte ha nevicato di nuovo.

Mi muovo lenta questa mattina: un po' per la stanchezza che mi è rimasta a dosso dalla giornata precedente, un po' per i pensieri che ho fatto stanotte prima di addormentarmi.

È strano tornare in questa casa ora che mia madre è morta, è strano toccare gli oggetti che toccava lei, sedersi sulla stessa sedia, bere nel suo stesso bicchiere e camminare sugli stessi pavimenti.

Non ero più abituata a questa sensazione.

Gli ultimi cinque anni passati a Boston, in un altra casa, gravitando attorno ad altre persone, avevano parzialmente annacquato i ricordi relativi alla mia vita precedente, rendendoli meno dolorosi e vividi.

Ma appena mi sono stesa sul letto ieri sera, questi stessi ricordi mi sono esplosi in testa come milioni di granate.

Nonostante se ne sia andata già un anno fa, tutto in questa casa sa ancora di lei, riesco a sentire la sua presenza tra queste mura, ma so bene che non la vedrò più curare le sue adorate rose in giardino o rassettare i pantaloni di papà seduta sul divano davanti al camino.

Una parte di me si sente in colpa per non essere venuta al suo funerale, ma dall'altra parte so di aver fatto la scelta migliore per me stessa: non avrei retto tutto quel dolore, quella disperazione.

Perché nonostante fosse un evento annunciato, né io né mio padre eravamo davvero pronti.

Apro il frigo alla ricerca del brick del latte, con cui prepararmi un buon cappuccino, ma tutti gli scompartimenti sono vuoti.

Apro tutti gli sportelli, ad uno ad uno, ma niente.

Persino la dispensa dove mia madre teneva le provviste per i dolci è vuota.

Manca persino lo zucchero, così mi costringo a buttare giù il caffè amaro.

Il liquido mi solletica la gola.

La mia prima giornata a Middlebury non è partita con il piede giusto: di solito il cappuccino a colazione mi aiuta a rilassarmi, a prendermi i miei tempi in modo da poter affrontare tutto con un sorriso e tanta serenità, ma stamattina mi sento già scarica in partenza...

Lo stomaco inizia a contorcersi dalla fame, così recupero una brioche confezionata nascosta in uno sportello, e la addento.

Il ripieno ai frutti di bosco è acido e la pasta gommosa, forse era lì da quando Cristoforo Colombo ha scoperto gli Stati Uniti...

Mi guardo intorno e cerco segni del passaggio di mio padre prima di me, ma non vedo nessuna tazzina sporca o tovagliolo stropicciato lasciati in giro.

A passo lento mi muovo nelle altre stanze del piano terra: il salotto, la sala da pranzo, la lavanderia, la veranda.

Il silenzio che c'è tra queste mura è assordante, ti entra sotto la pelle e ti ferisce l'anima.

Ti senti disorientato a muoverti in un ambiente che sta diventando sempre più freddo e incolore, e che sta scomparendo insieme alla sua proprietaria.

Per questo me ne ero rimasta a Boston per tutto questo tempo, volevo preservarmi da tutto questo, dal dolore che certe sensazioni si portano appresso, e ora che mi tocca conviverci assieme mi sento triste, fuori posto, impreparata.

Assalita da un ondata di malinconia, decido di uscire, di allontanarmi da quell'aria pesante e dolorosa, sento il bisogno di ricominciare a respirare.

Uscita per strada resto colpita dalla bellezza del paesaggio innevato che vedo davanti a me.

La neve è tinta di un bianco candido, purissimo, il manto è così spesso da sembrare soffice come le nuvole, il tutto è ancora più pittoresco soprattutto nel centro della città, dove svettano edifici in mattoni, in perfetto stile vittoriano.

Sui lampioni ai lati della strada sono ancora attaccati dei fiocchi in sete massiccia, appesi per festeggiare le festività natalizie.

Mi muovo svelta per le strade, mentre incrocio decine di volti familiari: alcuni di loro mi riconoscono, altri no, e si limitano a sorridermi cordialmente.

Non sono abituata a questa gentilezza, a Boston vanno sempre tutti troppo di fretta per fermarsi a guardare i volti di chi incrociano.

Sto per entrare in uno dei caffè centrali di Middlebury, quando passo davanti alla biblioteca della città.

Mi fermo ad osservare la grande scalinata esterna, le finestre, le colonne bianche imponenti, l'edificio non è cambiato affatto da quando sono stata qui l'ultima volta...

Colta da uno slancio di curiosità, mi decido ad entrare, ho voglia di dare un occhiata in giro tra i libri.

Tutti i pomeriggi, dopo la scuola, mi fermavo in biblioteca, a leggere libri di ogni genere, soprattutto quelli di cucina e sulla cioccolata, e passavo qualche ora in un mondo parallelo, dove mia madre e la sua malattia non esistevano.

C'eravamo solo io, i miei pensieri e tante, tantissime ricette.

Attraverso la grande porta in legno chiaro ed entro in un mondo a parte, familiare e caloroso.

Nemmeno gli interni della biblioteca sono cambiati da allora: gli scaffali sono tutti stracolmi di libri, la moquette color grigio topo è pulitissima, nonostante la grande quantità di persone che la calpestino ogni giorno, e le postazioni computer sono ordinate ed essenziali come sempre.

Tra gli scaffali si respira ancora quel meraviglioso odore di storia mista a caffeina.

È inebriante come allora.

Mentre stringo tra le mani un volume di letteratura giapponese, sento il mio cellulare squillare, sul fondo della borsa.

Imbarazzata, lascio cadere il libro, e apro la borsetta, nel tentativo di spegnere l'apparecchio.

Suona così forte che metà delle persone sedute alle postazioni vicine si è voltata a guardarmi.

Allargo la cerniera della borsa, infilando la mano in ogni centimetro, ma non riesco a prendere il telefono.

Possibile che questo dannato aggeggio suoni sempre nei momenti meno opportuni???

Rapida mi volto, intenzionata a uscire dalla biblioteca, ma nel muovermi a testa bassa, mi scontro con qualcuno che era poco dietro di me.

Nello scontro il contenuto della mia borsa si rovescia a terra, insieme ad alcuni libri.

Mortificata mi chino per raccogliere i libri mentre lo sconosciuto mi porge il mio cellulare.

"Stavi cercando questo?" una voce calda e profonda mi fa sobbalzare.

"Mi spiace tanto di esserti venuta a dosso, avrei dovuto stare più attenta" esclamo.

Appena alzo la testa il mio sguardo cade sul ragazzo chino davanti a me, e il mio volto si pietrifica appena lo riconosco.

Non può essere davvero lui.

Questo è uno scherzo.

"Oliver..." sussurro.

Lui mi rivolge uno sguardo interrogativo, prima che anche i suoi occhi ambrati vengano attraversati da un lampo.

"Emily... sei proprio tu???"

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