CAPITOLO I

55 11 5
                                    

"Sei particolare a' papà"

Ma particolare come?
Raffaele preferiva essere fortunato che particolare, come il figlio di Assunta, Carlo.
Carlo, che girava per la città con la sua bici e il suo campanellino lo sentivi per i vicoli del corso. A lui invece spettò il "particolare".
Ricordava queste parole mentre davanti aveva la sua quotidiana colazione, che ai suoi occhi sembrava spoglia, deprimente. Pane secco e latte insipido, acquoso.
Suo padre diceva sempre che ciò che ti riempie la pancia ti mette anche il sorriso, poi storpiava tutto col dialetto e auguri a riprenderlo.
Raffaele, invece trovava tutto privo di gusto, di carattere, non solo la colazione. "Quotidiana" è una parola che andava bene per una gazzetta, per un cartoccio di giornale lasciato sull'uscio della porta, non per lui. Strizzò gli occhi e consumò tutto, con l'aria di chi dovesse fare un favore a qualcuno. Andò in camera e vide sulla sedia la sua giacca nerastra, con una toppa cucita, che arginava un burrone di cotone mancante. Il suo zaino era brutto, troppo minuto per contenere quei libri strappati e rattoppati alla meglio con graffette e pinzatrici.
Li mise con rabbia dentro, si voltò verso suo padre e lo salutò frettolosamente.

<<Raffaele, non te dimentica' de ritira' le stoffe da Olivetta>>

Per lui qualunque richiesta era un macigno. Erano strette sul collo dall'imbarazzo di non avere la libertà di non pensare. Annuì al padre e si sbrigò a uscire di casa.
Si faceva piccolo per strada per non destare l'attenzione dei passanti. Provava vergogna a camminare da solo, con i vestiti da pezzente che gli rimediava il papà. Ma preferiva di gran lunga camminare inosservato, piuttosto che essere accompagnato col vecchio furgone di suo padre. Si fermò davanti ai cancelli della scuola, sfuggendo agli occhi degli altri, contando le pietre grattate del vialetto d'entrata. Odiava quel rito mattutino:
Voleva parlare di quelle cose che gli altri amavano, ma ci passava davanti come le vetrine. Amava studiare, ma quelle pliche di fogli confusionari e volanti nella sua cartella lo mettevano a disagio. Si rintanava all'ultimo banco e pregava di essere ignorato per paura del giudizio altrui, tant'è che pure quando interpellato rispondeva con voce fioca, non sua. 
Quel giorno fu confermato il trasferimento del professor Tomassoni, caro a Raffaele. Caro perché i compiti che assegnava erano perlopiù scritti, cosicché lui parlasse a sé stesso, senza curarsi degli altri. La nuova professoressa sarebbe arrivata qualche giorno dopo e i cambiamenti lo spaventavano, per quanto detestasse quello che per lui era l'ordinario. All'ora di pranzo tutti si alzarono e andarono a divertirsi, tranne Raffaele. Sentiva in sottofondo i chiacchiericci di paese, che gli facevano desiderare di sparire.

" Ma Raffaele se vole sveglia'?"
"Vie' da 'na famiglia de' disgraziati, lo è pure lui"
" 'r padre è 'n fioraio ma n' c'ha 'r becco de 'n quattrino"
" So' miserabili"

Stringeva i pugni contro il petto, mentre le sue urla erano striduli versi soffocati. Finita scuola aspettò che tutti andassero via. Si voleva assicurare che nessuno potesse più giudicarlo. Strisció contro le pareti, poi cautamente, tirò fuori dalla tasca della giacca una sigaretta rollata a mano, presa di nascosto dal portasigarette del padre.
L'accese con l'accendino, "appiccio" come dice Luciano.

<<Ciao Raffa' >>
quasi sobbalzò sentendo una voce candida e familiare.
<<Carlotta ciao>>
Per un breve periodo i due erano compagni di classe.
<<Oh, ciao caro, sei un compagno di scuola di Carlotta?>>
Una figura un po' più matura stava dietro le esili spalle della ragazza, aveva un sorriso caloroso, accogliente.
<<Prima sì, signore>>
Centellinò le parole, non era ragazzo da lunghe chiacchierate, né tantomeno si sbilanciava a parlare di sé.
<<Sei il figlio di Carmine il fioraio?>>
Raffaele strinse i pugni e fece cenno positivo con la testa, aspettandosi la solita derisione.
<<Sei uguale a tuo padre, salutamelo. Carlotta, porgimi la cartella che dobbiamo andare>>
Disse ciò, mentre apriva la portiera di un auto che non aveva nulla a che fare con il furgone del papà.
La ragazza con passi aggraziati, quasi danzando, si pose sul sedile, poi ondeggiò elegantemente la mano.
<<Ciao Raffa' >>
<<Ciao Carlotta>>
Il padre si giró verso il lato del guidatore e salutó benevolmente Raffaele. Poi l'auto partì e si fece inghiottire dalla movida stradale.
Il sole era piacevole per le piante.
Raffaele andò da Olivetta. Una signora con una voce graffiante e le borse sotto gli occhi.
<<Buon pomeriggio signora, mi' padre me manda pe' le stoffe>>
<<Buon pomeriggio ! Come no, come no, eccote le stoffe! >>
Disse tirando fuori il cumulo di tessuto sotto il bancone, stretto e allacciato da una cordicella.
Lo zaino di Raffaele straripava di libri strappati. Agganció le dita sotto la corda e fece leva per portarli, lasciando il peso sul petto.
<<Buon proseguimento signora>>
<<A te!>>
Fissava costantemente i suoi passi e li contava per capire quanto distasse casa. Usciva sempre di più dal paesello, l'ultima casa prima dell'aperta campagna. La costruzione era di un colore sciapo per i suoi gusti, una tartaruga orribilmente sgusciata.
Posò il carico di stoffe sul rialzo del vialetto.
Aprì il portone di  casa e lo richiuse, il padre era sul giardino dietro ad annaffiare le orchidee in tempo di primavera. Vide il figlio rientrare.
<< 'Le, vie' qua, damme 'na mano>>
Raffaele lo raggiunse snervato.
<<Che devo fa' pa' >>
<<Co' calma rialzami la terra che ce metto li semi>>
Guardava il padre. Delle volte provava nostalgia per l'uomo dai capelli ricci e il sorriso intramontabile. Sembrava quasi che in una gara tra il tempo e suo padre, il primo avesse avuto la meglio. Ora era più magro, a forza di saziarsi solo con insalata e legumi si era sciupato. Forse perché non gli cucinava più qualcuno.
<<Le'>>
<< Eh pa' >>
<< Famme n' favore, oggi accendila te 'na candela 'n camera mia e de tu' madre>>
Raffaele acconsentì senza contestare. Entrò in casa, salì le scale rumorose e spinse quella porta spifferante. Prese la candela di cera e la mise sul comodino della madre e quando l'accese con il fiammifero,  con il tramonto, la fiamma sembrava quasi alimentasse il sole morente, che lasciava spazio alla notte.
Rimase per diversi minuti impassibile davanti la finestra, mentre la sua pelle olivastra faceva da faro per i raggi di luna, che sopraggiungevano.
Guardò dalla finestra il padre, che caricava sul furgone le orchidee, lasciandone alcune sul rialzo del vialetto, dove poi prese le stoffe che faticosamente riportò dentro. Per queste piccolezze Raffaele si sentiva in difetto. Non aveva l'accortezza necessaria per fare di più, ma aveva coscienza a sufficienza per criticarsi.
Mangiarono come di consueto legumi e insalata, nel totale silenzio. Suo padre non era un gran conversatore, più un uomo dalle cose pratiche.
Raffaele invece era di quelli nati con la lingua arrotolata, che non masticano perfettamente il dialetto, ma il suo italiano aveva il sapore romano.
Si trovava bene nel silenzio, come durante le verifiche del professor Tomassoni: parlava a sé stesso, senza curarsi degli altri.

I FioriDove le storie prendono vita. Scoprilo ora