LIVIA- una famiglia

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"Sono stata qui diciassette anni e nessuno mi ha mai degnata di uno sguardo, perché adesso dovrebbe essere diverso?" Dissi spazientita, forse per l'ennesima o la prima volta in quella giornata.
"Piantala, lo sappiamo entrambe che sei solo agitata. Ti adoreranno, sembrano pazzi quanto te. Dinastia Giulio-Claudia, un branco di matti." Disse Anastasia. Era la cosa più vicina ad un'amica che avessi mai avuto, eppure non riuscivo a capire perché andassimo d'accordo.
Lei era la ragazza perfetta, studiava, leggeva classici, amava i musei, seguiva la politica, aiutava gli anziani.
Io ero l'esatto opposto, odiavo la scuola, leggevo libri di dubbio gusto che nascondevo alle suore, odiavo i luoghi condivisi con altre persone, trovavo la politica sempre uguale, disegnavo cose che agli occhi della gente non avevano senso, ascoltavo musica folk e metal e non riuscivo proprio ad andare d'accordo con nessuno.
Lasciai cadere le mani lungo i fianchi, un'azione che mi sembrava troppo estranea.
Sospirai. "Non è quello, e lo sai. Non sono agitata, sono semplicemente scocciata del fatto che l'unica occasione di andarsene da qui si presenti ad un anno dal mio diciottesimo compleanno." Forse non aveva alcun senso, ma la consapevolezza che ciò che avevo aspettato per tutti quegli anni arrivasse ad un passo dalla libertà mi sembrava pura follia.
Io ci ero cresciuta in quell'istituto, sapevo come andavano le cose.
Le persone guardavano i più piccoli, gli adolescenti non li voleva nessuno; un po' come i cagnolini.
Aspettavo i miei diciotto anni con molte aspettative. Non vedevo l'ora di diventate maggiorenne per poter essere indipendente e scapparmene via.
Quell'istituto sembrava una prigione e io non ero mai stata brava a rimanere dentro quelle mura delimitate.
"Almeno passerai un po' di tempo fuori dall'istituto. Prendila come una vacanza." Anastasia si sedette sul letto con una grazia che sembrava stonare con il mio intero essere. "Ma sono sicura che andrà tutto bene, gli piacerai. La signorina Amber ha detto che sono rimasti colpiti dal tuo nome." Mi sorrise e io non potei ingoiare la smorfia che mi si formò sul viso.
La signorina Amber era la donna che gestiva l'istituto, una donna che sapeva bene come sembrare perfetta agli occhi degli assistenti sociali.
Sbuffai. Non mi piaceva l'idea che la signorina Amber si fosse presa la briga di dire ad Anastasia che una coppia era rimasta colpita dal mio nome a tal punto da decidere di adottarmi.
Andavo fiera del mio nome, Livia Julia; era un nome importante, la moglie dell'imperatore Augusto, era stata così importante da essere nominata imperatrice anche lei.
Mi sedetti accanto ad Anastasia, con molta meno grazie di lei.
Lanciai la testa all'indietro, osservando le crepe sul vecchio soffitto dell'istituto.
"Devono essere dei fanatici di storia romana, quei due." Le tirai una lieve gomitata nel fianco, scherzando e ridacchiando. Lei sorrise, un sorriso delicato e dolce. Sembrava una bambolina di ceramica dentro quelle pareti grigie.
"Credo sia meglio che prepari le tue cose, prima che la signorina Amber le tiri fuori dalla finestra insieme a qualche insulto ai tuoi predecessori." Rise lei. Io rimasi seria, però seguii il suo consiglio.
Misi tutto ciò che possedevo in una scatola di cartone. Piegai con molta cura le magliette con i loghi delle mie band preferite. Guardai attentamente che i jeans non avessero troppe pieghe. Sistemai le foto in modo da non rovinarle.
Mentre chiudevo la scatola, mi assalì un moto di emozioni contrastanti alla realizzazione che mi stavo davvero lasciando l'istituto alle spalle. Che fuori da quel cancello arrugginito mi aspettava ciò che presto avrei chiamato famiglia.
Presi la scatola, mi sistemai i jeans e la felpa un'ultima volta e uscii dalla stanza che condividevo con le altre ragazze, dirigendomi all'entrata dove la signorina Amber mi aspettava con dei fogli in mano. Sbatté il tacco sul pavimento un paio di volte. "Le pratiche formali sono già state svolte. La coppia ti sta aspettando fuori, sono americani ma parlano anche italiano. Passerete qualche giorno a Roma prima di partire per l'America. Spero tu non abbia lasciato niente in camera."
Ingoiai l'asprezza che mi stringeva la gola. Appoggiai la mia scatola per terra e salutai gli altri ragazzi dell'istituto. Per quanto nessuno di loro era mai stato vicino a me quanto lo era Anastasia, era comunque dura lasciarli indietro. Io lì ci ero cresciuta, ero quella che ci aveva passato più tempo di tutti. Per quanto quelle mura erano sinonimo di prigione per me, conservavano una nota di malinconia per tutti i ricordi che conservavano. In quel momento mi promisi che sarei tornata, almeno una volta ogni due anni.
Abbracciai Anastasia, una cosa che non facevo spesso. Lei asciugai dolcemente le lacrime dagli occhi e le baciai la fronte, dicendole che sarebbe andato tutto bene e che l'avrei chiamata appena fossi arrivata in America.
Lei si sforzò di sorridere e io non potei non notare come quelle sue guance rosate si piegavano perfettamente in un dolce dipinto di dolore e malinconia.

SOGNI DI UN IMPERODove le storie prendono vita. Scoprilo ora