Capitolo 2 - Ramo

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Dopo tre ore e mezza di viaggio sono arrivata alla conclusione che forse non sono poi così pronta. Una parte di me non vede l'ora di ricominciare, ma l'altra vorrebbe solo tornare nella non-più-mia vecchia stanza. Più ci avviciniamo e più mi chiedo "sono davvero pronta?", sembrava così facile stamattina, eppure ora mi sento un macigno addosso.

Sono davvero pronta a cambiare vita, abitudini, amici, ricordi?

Non ne sono più così tanto sicura.

Guardo fuori dal finestrino, lo so, un po' cliché, ma lo facciamo tutti...e non provate a dirmi il contrario.

Il tempo sembra essersi dilatato.

«Mancano 10 minuti» disse mio padre, ma sembrava un'eternità. Gli alberi e le case scorrevano a rallentatore, iniziarono ad insidiarsi una marea di paure e di paranoie, tutto in soli 10 minuti?

E se la mia nuova stanza non mi facesse sentire al sicuro come quella vecchia?

E se non riuscissi a farmi nuovi amici a scuola?

E se...ormai non so più nemmeno io cosa potrebbe andare storto. Potrebbe mai andare peggio di com'era? Non credo.

Ma, allora, perché mi preoccupo così tanto? Perché ho così tanta paura? Perché mi vergogno di avere paura?

Non sono né la prima né l'ultima. Non sono sicura che andrà tutto per il verso giusto, ma forse ho la possibilità di migliorare le cose.

Eppure, sembra così difficile.

Ho paura e mi butto giù, ma un secondo dopo mi autoconvinco di poter migliorare le cose.

È sempre così. Non come delle montagne russe, quelle scaricano adrenalina, sono anche divertenti. Questa è una vera e propria caduta.

Mi sono buttata io dall'aereo, consapevole che il paracadute fosse difettoso. Un po' si apre, funziona, il momento dopo non più, e precipito. Un buco che non avevo visto prima, o magari mi ero solo immaginata che si fosse aperto. Non saprei, ma è sempre così.

«Eccoci arrivati» eccola di nuovo, quella sensazione. Mi sporgo quanto basta dal finestrino per poter dare una prima occhiata a quella casa. Non riesco ancora a chiamarla nostra.

/Nostro/ aggettivo possessivo. Indica in genere proprietà, possesso e/o appartenenza (materiale o spirituale). In altri casi indica anche relazioni con oggetti o soggetti.

Scesi dalla macchina e feci qualche passo avanti. Mi ritrovai difronte ad un piccolo giardino dalle sfumature verdi, gialle e rosse. C'è un grande albero proprio alla sinistra del giardino, da cui penzolava un'altalena, che occupava una buona parte di esso. La chioma dell'albero ha catturato la mia più completa attenzione. Rosso. Quello è il colore dominante. Rosso fuoco. Non avevo mai visto una cosa simile. Dietro l'albero, quasi come a volersi timidamente nascondere, vi era la nuova casa. Un alternarsi di vinaccio e latte macchiato che si sposava perfettamente con le sfumature autunnali della natura che la circonda. La mia vecchia casa mi abbracciava, sempre pronta a riscaldarmi e a consolarmi. Questa mi porse una mano, e io, entrai.
Diedi una lieve spinta al portone e dovetti strofinarmi gli occhi un paio di volte. Avete presente la solita dimora aristocratica nei film?
Davanti a me vidi una rampa di scale, ma al sopra avrei pensato dopo. La mia attenzione si spostò su una collezione di vasi meravigliosa che conduceva all'entrata del salotto. Un pianoforte al centro, una libreria maestosa su tutta la parete, un caminetto in quella opposta e delle poltrone che sembravano essere impregnate di incantesimo del sonno.
Dall'altro la cucina caratterizzata da una tavola lunghissima in legno.
"Siamo solo in 3, che spreco di spazio" e, infine, il piano di sopra.
Salii le scale di corsa e mi ritrovai davanti ad una porta socchiusa da cui spingeva un raggio di sole. Aprii dolcemente.
"Questa non è la mia stanza", per quanto fosse bella quella non era la mia stanza.
Le pareti color caffelatte creavano un bellissimo effetto grazie alla luce che entrava da due finestre alte, entrambe con un rialzamento, e il pensiero venne naturale.
"Sarebbe rilassante leggere qui".
Stesa sul letto mi persi tra i miei pensieri, ricordi, paure.

«Lea, sei sopra?» sentii mia madre.
«Sì mamma»
«Scendi per favore, io e tuo padre dobbiamo parlarti»
Un nodo allo stomaco. Non avevo combinato niente, ma l'ansia non mi lasciava nemmeno un secondo.
Scesi le scale e lentamente arrivai alla cucina trovando il solito sorriso caldo di mia madre.
«Tesoro, abbiamo parlato con il Preside della nuova scuola, il signor Davis. Ci ha elencato i corsi di recupero che dovrai frequentare per metterti in pari con i tuoi compagni. Domani troverai i moduli in segreteria, non te li dimenticare»
«Non ti preoccupare»
Ci furono degli sguardi strani tra mia madre e mio padre.
«C'è qualcosa che non va?» chiesi quasi sottovoce.
Mi rispose il silenzio, diventando sempre più assordante.
«Siete strani...» dissi allontanandomi. Forse erano anche loro in ansia per il primo giorno di scuola, mi rendo conto di non essere particolarmente sociale. Ma qualcosa mi bloccò i pensieri.
Mi voltai e vidi mia madre aprire la bocca, ma non ero sicura di aver capito.
Non è possibile.
«C-Cosa?» balbettai sgranando gli occhi incredula.
«C'è un centro per i disturbi alimentari a pochi passi da qui» buttò mia madre quasi incerta.
«Il Milestones» specificò mio padre.
Mi avvicinai ad una sedia. Perché mi stavano parlando di un centro dca?
Forse...
«Abbiamo notato che non stai bene ultimamente» provò a giustificarsi mia madre vedendomi impallidita. Non ero arrabbiata con lei, né con mio padre, ma con me stessa. Loro sapevano. Sapevano tutto? Come un lampo questo pensiero mi fulminò la testa.
Sentivo la gola stringersi, le lacrime salire, l'aria era troppo pesante.
«Tesoro» iniziò mia madre.
«Non volevamo farti arrabbiare. Abbiamo fatto qualche ricerca per te»
«Siamo preoccupati» aggiunse mio padre, preoccupato quanto mia madre.
Lea parla, diglielo che non sei arrabbiata, dì loro che hai paura di non farcela.
«Lea?» sentivo le loro voci ovattate, ma lottai per non perdere la lucidità.
E finalmente uscirono parole dalla mia bocca.
«Io n-non sono arrabbiata» sussurrai con un filo di voce.
«Passerò in settimana» mi alzai per salire in camera.
Ma prima di dissolvermi dietro l'angolo «Grazie...» dissi.

"Sanno che sono un mostro".
I miei genitori sanno che sono un mostro.

Voglio uscirne, voglio poter tornare a contare quanti giorni mancano all'estate. Non delle stupide calorie su una confezione.
Voglio guardarmi allo specchio e sentirmi piena di vita.
Per tutta la mia vita ho rincorso il vuoto, disperata. Ogni qualvolta che mi sentivo troppo piena cercavo disperatamente di tornare indietro, di scappare. Trovai una soluzione, orribile, che mi consuma giorno dopo giorno.
Desidero guarire e straboccare di vita, ma se non riuscissi a sopportarlo?
I miei genitori non sono stupidi. Non sono sorpresa, sono fottutamente impaurita.
Non ce la farò. Loro hanno fiducia in me, vedo nei loro occhi la speranza. Ma io non ce la farò.
Come potrei anche solo far finta di avere una possibilità?
Come potrei deluderli di nuovo? Devo provarci.


SPAZIO AUTRICE.

Spero che anche questo secondo capitolo vi sia piaciuto, la storia inizia a prendere forma e io non vedo l'ora di sapere come continuerà👀 (anche se ovviamente lo so già, ma è bello creare un po' di suspense)
Ancora una volta vi ringrazio per il supporto e se vi va seguitemi anche su ig e tiktok.

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Alla prossima💜

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