.𝟷.

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𝙾 𝙲𝙰𝙿𝚃𝙰𝙸𝙽, 𝙼𝚈 𝙲𝙰𝙿𝚃𝙰𝙸𝙽!

𝙴𝙳𝙾𝙰𝚁𝙳𝙾

"Che cosa sarebbe la vita se non avessimo il coraggio di correre dei rischi?"
VINCENT VAN GOGH

𝙽𝚎𝚠 𝚈𝚘𝚛𝚔
𝙽𝚘𝚟𝚎𝚖𝚋𝚛𝚎, 𝟷𝟿𝟿𝟼

La terra sotto ai miei piedi trema e geme al peso di migliaia di spettatori, studenti, famiglie, che saltabeccano smodati. L'aria è pregna di giubilo, di ansia, speranza e aspettativa. L'adrenalina è una potente scarica di corrente elettrica che sfreccia senza freni nelle vene, mentre il riff introduttivo di Thunderstruck degli AC/DC prorompe dalle casse con una potenza impetuosa e trascinante, e come ossigeno alimenta il fuoco della frenesia dei tifosi, animati dallo sport e dalla buona musica.
Il turchese delle banderuole, dei fazzoletti e delle maglie della nostra squadra sbandierate ai quattro venti si adombra al tramonto. Un'avvisaglia che l'Inferno emergerà dalle viscere della terra spazzando via tutto ciò che c'è di buono e sacro, e che sul campo il sangue verrà versato a non finire.
Eppure, sono tutti lì, compressi come sardine in quelle gradinate di un Colosseo sportivo, a gridare a squarciagola mentre i telecronisti annunciano uno stacco pubblicitario e noi ci prepariamo ad entrare nella rena come dei fottuti gladiatori e a portare a casa la vittoria, oltre che la pelle. Perché il football è questo.
È una metafora della guerra.
È una tregua dalla guerra.
È un gioco di centimetri.
È gloria e miseria.
È unione.
È passione.
È religione.
È vita.
E mai prima d'ora mi ci sono aggrappato con le unghie e con i denti.
Forse perché sto per perderla.
Forse perché, come chiunque, saggio sulla punta della lingua il sapore del cambiamento quando sta per sperimentarlo. È nuovo, metallico, proprio come quello della paura, e va ad annoverarsi tra i setti gusti del palato.
Questa che giocherò sarà la mia ultima partita come capitano e quarterback dei Columbia Lions e farò l'impossibile perché sia un trionfo. Il mio ultimo grande successo prima di concludere questa stagione universitaria e ritirarmi definitivamente.

Giocare nella NFL non è mai stato il mio destino. L'ho capito il giorno stesso in cui ho messo piede nel campo la prima volta. Ho iniziato a giocare a Football perché mi piaceva infliggere dolore.
Lo vedevo come un ineccepibile valvola di sfogo per incanalare tutta quella energia e quella rabbia repressa nei confronti della mia vita e della mia impossibilità di cambiarla. E l'ho fatto. Per anni, mi sono sfogato. Ero quel leone sbrigliato dalle catene che azzannava i guerrieri davanti a sé. Niente era meglio del sentore di rame e sudore nell'aria e nella bocca, della violenza in circolo nel corpo e dello scrocchio di un paio di ossa rotte. Ne sorridevo. Ne ero felice, con un occhio nero o meno. Nel campo potevo combattere quella battaglia che nella vita non ero ancora pronto a principiare contro mio padre e vincerla. Ero padrone delle mie scelte. Potevo muovermi liberamente senza avvertire il suo fiato sul collo, il peso di quella croce sulle spalle, l'esigenza di essere il figlio che lui voleva e che affermava di meritare. E per un po' è stato così. Ho frequentato assiduamente gli allenamenti, sia nel campo che fuori. Ci ho dedicato tempo e fatica, sfidando più volte la sua autorità. E ho imparato ad apprezzare seriamente il football. Ho compreso che non era solo uno sport bestiale giocato da bestie, che era anche casa, una famiglia. Quella che non ho mai avuto o manifestato di volere, ma che ho comunque ricevuto come un fottuto dono di Dio. La mia squadra, i miei amici, la gioia nei loro occhi a ogni touchdown segnato, a ogni vittoria conseguita è stato motivo di grande gratificazione e pace per me.

𝐒𝐞𝐚𝐦𝐥𝐞𝐬𝐬𝐥𝐲 𝐘𝐨𝐮𝐫𝐬Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora