Atto quarto: La chimera

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Riccadonna, dopo aver quasi consumato la fredda pietra del pavimento, si decise a bussare. Sapeva che il suo era un atto estremo dettato dalla disperazione. Mai prima di allora, aveva immaginato che una notte si sarebbe recata, in segreto, al talamo di un uomo.

Jacopo aprì, con un candeliere tra le mani. Perché non indossava una vestaglia e pareva pronto a uscire?

«Buon Dio, che fate qui nella mia stanza?»

«Aspettavate qualcun altro, signore?», chiese la donna avanzando con cipiglio sicuro.

«No, certo che no... »

Jacopo indietreggiò e ripose il candeliere sul tavolino dalle gambe dorate.

Riccadonna gettò un'occhiata al letto a baldacchino che, con sollievo, constatò essere integro.

«Vi rendo nervoso?»

«Converrete con me che la vostra presenza qui, è alquanto disdicevole e quindi...»

«Di cose disdicevoli volevo giusto convenire con voi... »

«Cosa intendete?»

Jacopo si strinse nelle spalle e cercò di evitare i suoi occhi severi.

«Sapete bene di cosa parlo.»

Riccadonna pose le mani sui fianchi e avanzò minacciosa.

Il giovane pareva sempre più a disagio.

«Avete portato la vergogna nella casa di vostro fratello e disonorato la mia famiglia. Dovreste sparire come un verme nella terra per tutti gli anni a venire della vostra misera esistenza!»

Jacopo retrocesse sino ad avere le spalle aderenti all'infisso della finestra. Volse il capo a destra e a sinistra, come se temesse di urtare i vetri serrati e cadere di sotto.

Quando fu a un palmo dall'uomo, Riccadonna avvertì il soffiare e nitrire di un cavallo. Nonostante il pallore delle candele, lesse il terrore sul volto del cognato. Un pensiero le balenò in testa rischiarandole la mente come un lampo nel cielo. Con una forza brutale, spinse Jacopo di lato, schiuse l'anta e si affacciò al balcone. Alla luce di una falce di luna, una carrozza sostava vicino alle stalle con un servo a governare le bestie. Fuori di sé, si rivolse al cognato.

«Che state facendo? Siete forse impazzito?»

«Vostra sorella vuole che fuggiamo insieme, stanotte.»

«Mio Dio!», imprecò volgendo lo sguardo in alto.

«Come manterrete lei e il bambino? Facendo il cantore? E in quale corte? Nessuno vi sarà amico. Nessuno vi darà aiuto. Dovete farvi indietro!» lo esortò, portando le mani alle tempie. «Medea giurerà e chiederà perdono. Io stessa sarò testimone dell'espiazione dei suoi peccati. Si ritirerà in convento se suo marito glielo imporrà. Ma il bambino crescerà con gli onori del suo rango. Abbiate pietà di lui. Non condannatelo all'infamia!»

«Voi non conoscete mio fratello. Egli non perdona.»

«Vi sbagliate! Lo conosco. È affranto, ma innamorato. Gli parlerò, lo convincerò, lui... »

«Se il bambino sarà maschio, lo ucciderà. Non può lasciare in vita un erede. Non prima del proprio.»

«No, no», urlò disperata. «Egli non è quel genere d'uomo!»

«Lo è, invece. Lo è. Credetemi!» Sostenne Jacopo con fervore.

Una voce si levò dal fondo della stanza. Riccadonna aggrottò la fronte, mentre la figura si delineava e si faceva nitida. Le sue forme erano ancora più tonde senza corpetto. Avvolta in una mantella scura, Medea si rivelò.

«Lasciami andare. Non prendere parte a questa tragedia», chiese con calma serafica.

«Non posso farlo, lo sai», rispose la sorella scuotendo il capo, avvilita.

«Vuoi macchiarti di sangue innocente, oppure vuoi che sia io a perdere la vita? Vuoi il mio regno? Il mio uomo? Oppure vuoi lui?», aggiunse indicando Jacopo.

Medea si fece dura come l'ebano: «Hai sempre voluto essere al mio posto. Perché non l'hai detto, allora?» Sollevò il mento fiera e si approssimò ai due. «Invece, sei stata a guardare inerme, mentre nostro padre barattava la mia ingenuità per fedeltà alla Serenissima.»

«Per onore vorrai dire. Parola che tu non conosci», ribatté Riccadonna.

«E che tu credi, di conoscere. Da te nessuno si aspetta nulla. Non hai dovuto essere dotta, ma tacere. Bella, ma non amare. Fare figli, ma che siano maschi.»

«Zitta! Taci! Ti sei mai chiesta cosa volevo io? Tu sei come l'edera: infestante. Abile a coprire la bellezza altrui, a soffocarla, pur di splendere», ribatté Riccadonna, arricciando il labbro superiore con disprezzo.

«E tu...» Medea fece una smorfia e gli sfuggì un gemito. Si portò una mano al ventre e si piegò sul fianco. «Dobbiamo andare... », implorò in direzione di Jacopo.

Lui calò lo sguardo a terra e intravide del liquido rossiccio gocciolare dagli stivaletti al pavimento. Sgranò gli occhi: «No! Dobbiamo restare. Devi fare come dice tua sorella». Retrocesse, bianco in volto come un cencio al chiar di luna. «È troppo tardi!»

«Che stai dicendo?» ribatté Medea, mentre con una mano si reggeva al tavolo e con l'altra afferrava un candeliere.

«Come farò a occuparmi di te? Non avremmo dovuto! Questo bambino nasce sotto una cattiva stella. Sarà una maledizione che ricadrà su tutti noi!»

«Maledetto, sei tu!», imprecò Medea e con le sue sole forze uscì dalle stanze.

Jacopo afferrò Riccadonna per il gomito: «Che farete ora?»

«Andrò da Roberto. La fermeremo. Non può andarsene in questo stato.»

Riccadonna uscì per raggiungere l'altra ala del palazzo. Raccolse l'abito con una mano, il candeliere nell'altra, e si mise a correre.

Lorenzo Di MinicoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora