Capitolo 2

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La mattinata era già iniziata male. Tralasciando il non aver chiuso occhio a causa dello scombussolante viaggio in treno, Enea ne aveva almeno altri dieci di buoni motivi per affermare che la sua buona stella fosse probabilmente in vacanza da un pezzo. Anzi, più andava avanti, più si convinceva di una cosa: Il mondo di chi riceve pressanti attenzioni sin dal primo vagito non è a colori; eppure in molti avrebbero fatto volentieri a cambio. Il tempo si scandiva ai lenti e precisi passi delle aspettative degli altri, chiunque si aspettava la perfezione e soprattutto, era oltremodo oltraggioso avere una propria opinione su qualsiasi cosa. Si veniva formati da uno stampino, non si poteva divergere dal resto. Enea Wilson, tuttavia amava definirsi una persona fuori dal normale, guai ad affermare il contrario ad alta voce. Credeva che l'essere ordinari significasse avere una vita già fatta e diretta da qualcun altro, ergo morire senza aver lasciato un segno nel mondo. Si era fissato quell'obiettivo già a quattro anni, quando a malapena sapeva leggere e scrivere, e aveva iniziato imparando a muovere la penna con entrambe le mani. Quando alle scuole primarie l'insegnante l'aveva visto passarsi la penna da una manina all'altra, all'inizio aveva semplicemente pensato fosse strano. Solo in un secondo momento l'aveva provata a correggere, ma non poté nulla, proprio come i suoi genitori. Era orgoglioso del suo essere ambidestro. Il nonno paterno, analfabeta funzionale di prim'ordine, lo difendeva affermando di esserlo anch'egli, e di non vederci nulla di male. A molti sembrava un'assurdità anche come passasse il suo tempo. Non capivano il senso delle letture, dell'astrologia, dello scribacchiare su pezzi di carta, lasciando che l'inchiostro la macchiasse e la profumasse, e della musica. E glielo dicevano in molti e non di rado, ma a non gli importava granché, perché si divertiva. In un modo o nell'altro, quella che si sarebbe potuta definire "alta società", lo intratteneva sempre egregiamente, con la sua vasta ignoranza. Non fraintendetemi, anch'io penso che alle volte sia meglio tacere alcune cose, ma per Enea non c'era peggior malattia dell'ignoranza generale. Adorava in particolare andare a chiedere ovvietà a più tuttologi, solo per sentire cosa avessero da rispondergli. I suoi eventi preferiti, erano in particolare, le feste che si davano verso la fine del dodicesimo mese, per celebrare la venuta dell'anno nuovo. I suoi bersagli preferiti? Uomini e donne ben vestiti e pettinati e imbellettati, con la testa alta e circondati da un copiose coppie di bocche e orecchie. Perché si sapeva, gli occhi erano sempre da qualche altra parte. Bastava chiedere al primo uomo sulla trentina che avesse iniziato a bere da almeno metà evento, e che quello alzasse le sopracciglia prima di rispondere. Che il suo responso fosse veritiero o meno, almeno un paio di saccentoni avrebbero provato a metterci il naso; funzionava sempre! Nonostante il divertimento, Enea Wilson iniziava ad annoiarsi. Aveva mantenuto un profilo basso fino al suo diciottesimo compleanno, rientrando perfettamente negli schemi familiari ed evitando in ogni modo il contatto con chiunque aspirasse ad avvicinarglisi per dissuaderlo dalle sue idee o a chi gli ronzasse troppo attorno per appioppargli qualche ricca e pomposa ereditiera dalla bocca piena di belle parole e dalla testa vuota. Rifiutava cortesemente inviti a cena, sormontava sugli insulti velati di chiunque cercasse di provocarlo e si fingeva cieco davanti ai bisbigli indiscreti delle madri insoddisfatte che lo calunniavano. I suoi genitori, erano disperatamente alla ricerca di un compromesso. Sua madre, era nata in una famiglia di avvocati e aveva seguito quella strada; suo padre, che al contrario presentava umili origini, non voleva che suo figlio cadesse in miseria. Persone in gamba e tremendamente scaltre, senza dubbio, ma Enea avrebbe sconsigliato anche al proprio peggior nemico di inimicarsene uno. Li comprendeva, certo, ma comprendeva anche sé stesso. Gli era stato più e più volte consigliato, sia da parte dei genitori, sia da parte di chiunque lo conoscesse, di prendere quella bella strada sottobraccio e di diventare come loro, anzi! Gli avevano fatto il favore di iscriverlo ad una della più facoltose università di giurisprudenza del paese. Lui fu talmente elettrizzato dalla notizia da non riuscire a dormire per una settimana. Non ci aveva pensato assolutamente due volte quando aveva fatto i bagagli con i vestiti più comodi e informali che possedeva, svuotato le proprie carte di credito il giusto da potersi mantenere per qualche anno e cambiato numero di cellulare. Non aveva amici. Non andava d'accordo con nessuno, nemmeno con sé stesso, e proprio per quel motivo, in attesa del battello, iniziò a fumare e scrivere in simultanea. Non andò a finire bene. Ma era sempre meglio di parlare con la giovane tedesca che gli si era accollata, delle sue lunghe trecce bionde decorate con i fiori di pervinca. Iniziò a farsi chiamare "YuXuan" da quando, dando una mano ad uno straniero affascinante due settimane e mezzo dopo la partenza, quello aveva iniziato a chiamarlo in quel modo. Il belloccio si era perso, non conosceva più di sei frasi in croce in lingua corrente e nemmeno il luogo, eppure si era messo alla ricerca di un "caaaaaaaaaaaaaro amico". Erano scesi a quasi sei stazioni di distanza dalla sua destinazione, solo per passare la giornata con quel ragazzo che sembrava più piccolo di lui, ma poteva benissimo essere un potenziale Sugar Daddy. Solo dopo aver allertato il suo migliore amico, ripartì. Osservò le persone sedute nei posti attorno a lui; gli sembravano degli alieni. Non si aspettava che chi lo conoscesse anche solo di vista gli restasse indifferente, ma nemmeno di attirare tanti sguardi. Una donna dal volto corrucciato, lo prese a fissare. Batteva le ciglia a rallentatore, una prima, l'altra dopo. Pregò che il viaggio in treno finisse presto, per quanto la maggior parte della traversata fosse già alle sue spalle. Non si poteva dire fosse partito impreparato. Aveva con sé la protezione solare, degli integratori e un ombrello, nel caso avesse piovuto o fatto troppo sole. Avrebbe potuto trovare dell'acqua potabile praticamente ovunque, e per il cibo, avrebbe sostato di tanto in tanto in qualche tavola calda. Si sarebbe trovato un lavoro più in avanti, non appena trovata una cittadella ideale in cui vivere. Avrebbe comprato una casa, magari! Con i suoi nuovi bei piani per il futuro, si accucciò vicino al vetro, il braccio ripiegato sotto la testa; non aveva sonno, ma doveva riposare. Non appena il treno fischiò al capolinea, sollevò il capo pulsante. Gli ci volle relativamente poco per realizzare quanto stesse accadendo. Sospirò; l'aveva fatto. Era scappato. Era scappato davvero. Era immensamente felice, lo era sul serio, ma non riusciva a sentirsi soddisfatto della sua azione. La testa gli vorticava incessabilmente, e l'unica cosa che riuscisse a materializzare era: "E... e adesso?"

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