Capitolo I - Pagine di diario

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«Il Mio desiderio è partire, fuggire. Non verso le Indie impossibili verso le isole a Sud di tutto, ma verso un luogo qualsiasi che non sia questo. Non voglio più vedere questi volti, queste abitudini, questi giorni.»
F. Pessoa

La lezione di lettere non è stata diversa da tante altre, ma questa non è una novità. Indubbiamente è stata stimolante, su questo non c'è dubbio, ma studiare da sola senza una classe è un po' monotono, io poi cosa ne posso sapere di una scuola normale? Non posso nemmeno paragonare e mettere a confronto le due cose. Ogni tanto però dimentico questo dettaglio, mi illudono di alzarmi una mattina, uscire di casa, aspettare il bus e sedermi in un piccolo seggiolino angusto con l'aria fittizia. Mi illudo di incontrare una nuova amica o di conoscere un ragazzo agli armadietti e innamorarmi perdutamente, chissà com'è vivere tutto ciò, chissà cosa si prova anche nell'avere il cuore infranto. Qualcuno potrebbe dire, che è una fortuna non averlo mai provato, eppure per chi come me tante cose così normali non le ha vissute e, forse mai potrà, è un malessere. Un vero pezzo mancante nella vita di ognuno, si dovrebbe provare ogni sentimento ed emozione che la vita offre, ma io non sono neanche a metà, nulla di tutto questo sarà mai possibile. Quando leggo i romanzi d'amore che tanto mi piacciono, mi domando spesso se mai proverò quel sentimento descritto, come un fuoco che arde, in quelle pagine e se mai sarò in grado di riconoscerlo. Ho solo i libri da guida e per quanto sono meravigliosi li ritengo ugualmente attendibili.
Non assaporo le lezioni che amo per questi motivi e forse anche per altri di cui ancora non sono a conoscenza. Allontano un capello fuori posto e lascio che la mia mente divaghi in pensieri più reali. Non riesco a frenare gli ingranaggi della mia mente.
Rosa questa mattina, dopo l'esposizione del mio elaborato, mi ha consigliato una lettura che avevo già precedentemente letto e poi, sempre di corsa, è scappata quasi inciampando in quella lunga gonna. Ritengo ogni rilettura importante, spesso ti accorgi di alcuni dettagli solo dopo svariate letture e apprendi al meglio alcuni momenti o significati importanti che l'autore, attraverso le sue parole e la sua storia, vuole trasmettere. Essa è sempre presente nelle mie giornate, mi aiuta, è vitale come lo è l'acqua o il sole per i fiori.
Casa mia non è proprio una casa, più una fortezza senza uscita ed io come Raperonzolo osservo il mondo dalla mia finestra, perché le mura che abito non sono così belle come fuori, all'interno sono fredde, alle volte silenziose e altre volte bisbigliano tra loro, attente a non farsi sentire da orecchie indiscrete. Non che ci sia molto vociare in questa casa, mia madre se ne sta sempre chiusa in camera e mio padre lo vedo solo il fine settimana, ma non ho mai avuto alcun rapporto con lui. Un uomo d'affari, sempre in viaggio tra Italia e varie parti del mondo ma in particolare con l'Irlanda, ancora non comprendo perché non siamo rimasti in Italia.
Non ho molti ricordi di quella terra, ero troppo piccola, ma so che è un altro mondo, un'altra aria e ricordo la sensazione di quell'erba verde vivida tra le mie mani o le margherite a cui strappavo un petalo dopo l'altro e ricordo un bambino biondo, era sempre con me, ma non rammento nient'altro. Sicuramente era un volto amico, un po' sbiadito nei miei ricordi, ma è il primo amico che ho avuto.
Un amico vero.
Passo le mani affusolate e ceree sui libri presenti nella mia libreria ed ecco che scorgo "I promessi sposi" di Alessandro Manzoni. Una copia vecchia che apparteneva a mia nonna materna, una donna tutta pepe greca. Non li ho mai conosciuti e non ho mai visto la Grecia e così per molti altri posti. Non ho avuto ancora l'opportunità di visitare altri mondi all'infuori di queste mura. Un giorno visiterò altre terre, calpestandole con le mie scarpe, fino a lasciare l'importante come l'uomo sulla luna. Infatti, da quest'ultimi racconti di mia mamma, Iris Petruo, so che la cara nonnina scorrazzava per tutta Argo alla ricerca di libri antichi ed è così che poi ha conosciuto mio nonno, in un piccolo negozio pieno di romanzi antichi e importati dall'Italia.
Mio nonno era lì per i suoi studi artistici e si era fermato in questo negozietto, perché lui stesso era un amante della lettura, oltre che dell'arte. Mio nonno si innamorò subito di lei, la corteggiò a lungo e le regalò molte copie di romanzi importanti della letteratura italiana, la conquistò. Tanto che lei, affascinata, seguì mio nonno in Italia e si sposarono, nonostante i miei bisnonni materni non avessero mai approvato questa unione. Pochi anni dopo il matrimonio nacque mia madre, che crescendo con lo spirito greco, decise di adottare il cognome di mia nonna, fedele alle origini.
Tutta questa storia è scritta nelle pagine del diario di mia nonna, in italiano. Nonostante vivo in Galles, oltre a parlare l'inglese, utilizzo maggiormente la mia lingua madre.
Naturalmente non con i miei insegnanti, all'infuori di Rosa che ha imparato appositamente l'italiano e con i miei genitori, quel poco che parliamo. Mio padre dice sempre che non bisogna mai dimenticarsi delle proprie origini, la nomina raramente la sua amata Sicilia, ma io so che è sempre nei suoi pensieri, forse è l'unica cosa che conta per lui.
Lancio un'occhiata all'orologio, appeso sul muro beige della mia stanza e, noto che sono appena le 3:00 pm, prendo i miei anfibi neri e la giacca in pelle lucida rossa e chiudendo la porta di camera mia, scendo alla rinfusa le scale.
Con un tempo così nuvoloso, è d'obbligo per me uscire e andare alla caffetteria all'angolo: il "Little Davil's Café". Dove il signor Hughes, prepara degli Waffles alla Nutella e banana strepitosi, che accompagno sempre con un milkshake al cioccolato. Sono una cliente fissa, se passano giorni a non vedermi beh, dire che si preoccupa è un eufemismo. Sono una Raperonzolo un po' diversa dalla classica storia Disney, posso uscire ogni tanto e ho anche un mezzo tutto mio, a patto che ci sia sempre qualcuno a seguirmi, mai da sola e devono sempre sapere dove sono diretta.
La mia monotonia è un'alleata in questo caso perché i miei spostamenti sono sempre gli stessi e non è nulla di entusiasmante, in solitudine e semplicità in luoghi affollati. Scelgo con cura i luoghi pieni di persone, perché in cuor mio spero di trovare qualcuno che si avvicina anche solo con una scusa o una semplice domanda sull'orario o una constatazione sul tempo di oggi, ma non succede mai.
Arrivo con pochi passi al garage della mia villetta bianca panna, dove l'Audi lucida bianca e la BMW nera opaca di papà sono parcheggiate.
Per ultima Betty, la mia jeep rossa pastello, che da quando ho preso la patente non ho mai abbandonato, ho dovuto combattere con mio padre per avere il diritto di avere questa indipendenza, ero stanca dell'autista sempre alla calcagna, pronto a riferire ogni spostamento al capo. Anche se so che ogni mio movimento è controllato con specifiche direttive.
Non ho voluto un'auto lussuosa come quelle di mio padre, preferisco confondermi con la massa e passare inosservata, senza che i passanti si girano a guardarmi e si aspettano di vedere una donna ben vestita con tanto di firma in vista. Salgo su Betty, ingrano la marcia ed esco dal garage. Appostati fuori da esso e su tutto il perimetro della casa, delle guardie in giacca e cravatta tutte impettite e italiane. Pronte a sfoderare le loro armi, anche contro i giornalisti invadenti che mensilmente invadono il recinto di casa. Un vero problema, perché in quei giorni nemmeno io posso uscire, vogliono una mia foto da associare al mio nome, perché mio padre non ha mai voluto farmi vedere al mondo. Sono un fantasma con un nome, ma poco conta, anche lui e mia madre molto spesso mi trattano come tale.
Naturalmente tutto questo è eccessivo, come lo è avere due bodyguard che ti pedinano, certi che tu non li abbia mai notati. Con gli anni ci ho fatto l'abitudine, evidentemente essere figlia di un ricco uomo d'affari internazionale consiste anche nel correre pericoli. Ho dedotto che, per aver preso una decisione così severa, come le guardie e la mia istruzione privata, evidentemente i rischi che corriamo non sono pochi. Non sono spaventata, sono talmente un'ombra sconosciuta anche agli occhi della società che è improbabile un mio rapimento o quant'altro, ma è sempre un bene avere il beneficio del dubbio. Per tale ragione ho dovuto ammettere a me stessa, all'età di dodici anni, che continuare a insistere per uscire non sarebbe servito a nulla. Soffro? Ovvio che si, ma non ho voce in capitolo, ormai non mi ribello più. Io non sono l'artefice di nessuna mia decisione, di nessun "si" e di nessun "no", quest'ultimo lo griderei con rabbia se potessi.
Oggi, Aber, è più fredda e umida di quel che mi aspettassi. Trovo parcheggio molto facilmente, proprio al lato della strada dove vi affaccia la caffetteria. Robert e Davide, accostano l'auto dai vetri oscurati al lato opposto.
Scuoto la testa e uscendo dall'auto appoggio un piede su una pozzanghera, fregandomene mi avvicino all'entrata del Davil's, sicura che le due spie, come loro solito, aspettano in macchina. Il Davil's è una caffetteria semplice, con mattoni a vista e menù appesi all'ingresso, con tavoli e sedie in legno, coperte da cuscini morbidi neri e divanetti a muro anch'essi neri. Grandi vetrate, incorniciate da ferro battuto dipinto d'azzurro, illuminano l'ambiente rendendolo luminoso, nei giorni di pioggia piccole luci si accendono e l'atmosfera è più calda e intima.
All'ingresso vi sono due posti a sedere, con tavoli e sedie di ferro, che i clienti occupano solo quando al suo interno non c'è più posto.
Ad accogliermi la giovane Jenny e il suo bambino di sei mesi, clienti abituali come me. Mi rivolge un breve saluto, senza mai distogliere lo sguardo dal piccolo Thomas. Un dolce bimbetto paffuto, con guanciotte piene e una risata forte sempre al momento giusto. Adocchio il mio abituale tavolo all'angolo della caffetteria, affacciato alla grande vetrata. Ho fatto togliere apposta la sedia di fronte, dopo tante suppliche il signor Hughes ha ceduto senza mai farmi domande. Sicuramente non si sarebbe mai seduto nessuno al mio tavolo, ma l'idea di avere una sedia vuota di fronte a me non mi è mai piaciuta.
Carlos, il cameriere spagnolo, che da circa un mese il Signor Hughes ha assunto, mi porge il mio piatto di waffles con Nutella e banana e il mio milkshake al cioccolato, l'ordine di sempre, con un sorriso impacciato. Carlos lo è davvero, ha combinato più disastri lui in un mese che Anna, la vecchia cameriera. Ma in un modo bizzarro sa farsi amare dal Signor Hughes come un nipote che non ha mai avuto. Lo ringrazio silenziosamente e apro il mio diario, alla ricerca di una pagina vuota su cui scrivere un mio nuovo pensiero od osservazioni su qualche volto che intravedo. Fermo la pagina con una matita rossa e incomincio a mangiare la dolcezza degli waffles e sorseggiare la bevanda anch'essa dolce.
Passo un'ora o più così, a mangiare e a scrivere di una donna anziana con dei fiori in mano. Immaginando la sua storia, le sue emozioni dietro all'espressione arcigna che le aleggia in volto mentre attraversa la strada e infine la descrivo come la vedo io, con i miei occhi da sognatrice, con quel tocco che solo io so dare alle mie parole. Scrivere è un piacere, scrivere è arte, scrivere è passione, ma soprattutto è immaginazione e realtà che si incontrano in un sottile confine invisibile.

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Miei cari lettori, siamo giunti al secondo mercoledì di pubblicazione.  Come state? L'attesa è stata molto dura? Io sono a lavoro ovviamente, amo il mio lavoro, infondo sono un'archivista e non c'è lavoro migliore per una lettrice appassionata di storia come la sottoscritta, ma oggi non è proprio quella che si definisce una bella giornata e no, non parlo del tempo. Voglio lasciarvi una perla di oggi; mai lasciare che il tempo vi corroda.

Miei carissimi, spero che amerete questo capitolo e gli altri ancora di più. Buona lettura e buona giornata❤️

-Vanessa White ❤️

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