Capitolo III - Un venerdì tanto atteso

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«Non si dimentica niente, le cose cambiano solo posto ma rimane tutto dentro.»
- Sigmund Freud

Guardarmi allo specchio, con le mani rigide sul lavandino, è solo la conferma del mio viso stravolto per la notte insonne. Insonnia con cui convivo da ragazzina, tra notti a leggere, incubi e uscite fuori dal balcone a orari diversi. Il freddo notturno, quella brezza fredda, è come un secchio d'acqua ghiacciata. La mia cura al risveglio nel mondo reale. Ma il mio sonno agitato e mancante, questa volta, è dovuto a un'ansia inspiegabile e una curiosità mai appagata, tutta colpa di mio padre, i suoi misteri e quei due nomi. Perché oggi è il Venerdì annotato sul calendario con quel nome, Tommaso, che avrà presto un volto e suo figlio; il mio vecchio amico d'infanzia. Sono rimasta con una sorta di peso sul petto in attesa di questo giorno, una strana ansia inspiegabile. Probabilmente è solo perché rivedrò ilbmio amichetto d'infanzia di sempre dopo anni e non so come comportarmi. Ogni cambiamento, ogni novità per me è un malessere. Non sono abituata ai cambiamenti né sono in grado di adattarmi subito alle novità, lo faccio sempre, certo. Cerco in ogni modo di incastrarmi in qualsiasi situazione della vita che mi viene offerta, modello il mio aspetto appositamente, per essere l'incastro perfetto; un puzzle mutevole.
Un bussare alla porta del bagno mi distrae.

« Signorina, vostra madre mi ha espressamente ordinato di riferirle di prepararsi in fretta, perché tra un'ora andrete a pranzo in centro città, con due amici di famiglia. Le lascio l'abito che vostra madre ha scelto sul letto. Se necessitate di qualcosa, attenderò fuori dalla vostra stanza.»

Dalla voce ho riconosciuto una delle inservienti, Greta. Mia mamma è solita fare così; mandare gli altri al suo posto. Incarica l'inserviente di turno, poco le importa chi, basta che non sia lei. Inoltre, raramente scelgo un abito per queste occasioni rare, anzi rarissime, ma sempre la donna che mi ha messa al mondo decide. Sono la sua bambina o meglio dire, bambolina di pezza, da vestire come più le aggrada. L'importante è che appaio impeccabile ed io chi sono per andarle contro? Nessuno. Sbuffo sconsolata, non posso fingermi malata, non posso mentire perché non ne sono in grando e non posso nemmeno rifiutarmi senza alcuna spiegazione. Andiamo, non ho coraggio da vendere, sono una fifona stupida dalla testa perennemente china. Mia mamma vuole così, ma gli ordini sono di mio padre. Sono una figlia modello, sono la figlia perfetta e obbediente che desidera, che vuole, che ha. Non è importante il mio turbamento, lo devo ignorare anche questa volta, per il bene di qualcosa che non conosco e non ha forma.

«Va bene Greta, grazie, ma puoi anche andare senza dover aspettare fuori.»

Preferisco stare sola, la mia stanza è l'unico luogo dove non mi sento piccola e insignificante. L'unico luogo della casa dove posso respirare senza sentirmi col fiato sul collo o sotto una lente d'ingrandimento.
Appena sento Greta uscire dalla mia stanza, con un leggero sbattere della porta, corro a vedere l'abito. Mia madre è una donna dai gusti semplici ma formali, un po' diversi dai miei, ma difficilmente quello che sceglie mi dispiace. Un abito aderente nero, poco sopra alle ginocchia, con colletto e polsini bianchi di una camicia, a maniche lunghe. Molto bello e adatto a un semplice pranzo. Apro il cassetto dell'intimo e con un completo semplice nero e i collant color carne, mi dirigo in bagno. Riempio la vasca, con quel bagnoschiuma alla pesca che mi piace tanto e mentre aspetto, dal mobiletto marrone vicino al lavandino, prendo la crema corpo e lo scrub della stessa fragranza. Entro  nella vasca, mi massaggio il corpo con la spugna morbida e rossa, poi lavo i capelli castani con lo shampoo alla pesca e dopo averli sciacquati, procedo con la maschera abbinata. Con il guanto opportuno applico lo scrub, con movimenti circolari. Poco dopo, col doccino mi sciacquo ed esco dalla vasca con un turbante in testa e l'accappatoio. Tampono il corpo e metto l'intimo, passo alla crema corpo e dopo essermi lavata le mani, passo alla crema viso per pelli miste, che lascio sempre in vista, vicino al lavandino. Mi dirigo in camera e indosso cautamente le calze, guidandole senza tirarle, lungo i miei polpacci e cosce e poi su, in vita. Mi volto leggermente e prendo l'abito al tatto caldo e morbido, lo indosso con cautela dal capo e sistemandolo, noto che non punge ed arriva appena sopra alle ginocchia.
Con ancora il turbante in testa torno in bagno, per asciugare i capelli, che dopo una quindicina di minuti ricadono lisci, poco sopra il fondoschiena.
Con un piccolo mollettino, raccolgo le prime due ciocche frontali dietro al capo. Prendo la pochette rossa che ho a vista in bagno, con all'interno il minimo trucco indispensabile, poiché gli altri li tengo in un beautycase più grande, che utilizzo raramente. Acquisto sempre molti trucchi, ma alla fine utilizzo sempre quelli all'interno della pochette rossa. Procedo con il correttore e lo stendo con l'apposito pennellino, un leggero strato di fondotinta in polvere con l'aiuto di una spugnetta morbida, un blush pescato, un ombretto marrone chiaro, in contrasto con i miei occhi verde prato, sfumato con uno più scuro, mascara e infine burrocacao, trucco semplice che reggerà a lungo. Dal mobiletto in basso recupero la piastra, 180°, tolgo il mollettino e passo la piastra, giusto per averli più in ordine, essendo già lisci impiego poco tempo. Ritorno in camera e recupero un paio di stivaletti in gomma Chelsea neri, che indosso insieme al cappotto lungo e marrone abbinato alla borsa a tracolla, con all'interno i documenti, portafogli e fazzoletti.
Chiudo la porta di camera mia, non prima di aver controllato che fosse tutto in ordine e scendo le lunghe scale di casa, trovando ad attendermi i miei genitori. Mi osservano da capo a piedi, ecco quella lente che brucia su ogni centimetro del mio corpo facendomi sentire nuda. La mia pelle si riempie di brividi, in attesa di un solo piccolo cenno di approvazione. Non un sorriso, non un piccolo cenno, il nulla per molto e poi ecco, un leggero abbassamento del capo e un rialzo aggraziato di Iris.
Mamma indossa un abito verde petrolio aderente e lungo fino alle ginocchia, con scollo a V e le maniche a tre quarti con dei piccoli bottoni ai lati, tacchi neri lucidi, i capelli raccolti in un ordine maniacale sul capo e lo sguardo apatico di sempre. Quasi scoppio a ridere quando mi appare in mente, come una fotografia, l'immagine della Signorina Rottermaier di Heidi. Ripeto nella mia testa di darmi un contegno, stasera devo essere ligia e perfetta. Mio padre indossa il classico completo nero e camicia bianca, ma è sprovvisto di cravatta, significa che è un pranzo informale e gli inseparabili gemelli d'oro l'accompagnano. Ha uno sguardo spazientito. Ecco, ho già commesso il primo errore della serata e spero in cuor mio, che sia l'ultimo. L'utima volta che ho commesso un qualcosa che per loro non andava bene, non sono potuta uscire di casa per due settimane. Sono state due settimane infernali che non vorrei mai più ripetere.

«Ci hai messo una vita Anthea, ci vuole puntualità nella vita, in ogni contesto. Non è vero Iris?» Ecco spiegato quel cipiglio di fastidio. Interpella mia mamma, come sempre, solo per sentirsi dire che ha ragione. Ha sempre un sì come risposta, mai contraddirlo.

«Certo caro, ma sono sicura che Anthea si scuserà a breve. Non è vero figliola?»
Mia mamma mi guarda con un piccolo segno di avvertimento. Abbasso il capo e accolgo quel piccolo obbligo travestito da suggerimento.

«Certo, scusatemi. Spero che siamo in orario.» Il mio è un tono dolce, anche se le mie scuse non sono affatto sincere.

«Lo spero anche io per te, non voglio fare brutta figura e ora salite in auto. Svelte donne.» Detta imperterrito.

Per lui siamo un peso che deve trascinare, come se fossimo dei sassolini dentro una scarpa che non vanno più via. Molto spesso mi è capitato di essere in una stanza con lui e di non parlare per ore e poi, quando finalmente dico qualcosa per avviare una conversazione, qualsiasi cosa, mi osserva stranulato, come se solo in quel momento si fosse accorto di me. Invisibile. So che è così, che davvero lui non nota la presenza di noi donne, valiamo meno di zero. Marco desiderava il figlio maschio, il prediletto che avrebbe ereditato tutto il suo impero e che sarebbe stato la riproduzione esatta di sé stesso. Peccato, per lui ovviamente, che mia mamma dopo un parto così difficile non poteva più generare altri figli. Inutile dire il suo disappunto, non so nemmeno quanti medici ha voluto consultare prima di rassegnarsi. Io, d'altro canto, sono felice di essere figlia unica perché già io stessa sono infelice, non avrei mai voluto che qualcun altro a me caro e a cui avrei dovuto badare e augurare il meglio, passasse quello che sto vivendo io.
Prendiamo la BMW di papà, che sta alla guida con a fianco la mamma, nessuno dice niente e forse è meglio così, ma avrei preferito la compagnia della radio a spezzare questo pesante silenzio.
In un modo o in un altro sbaglio sempre, non va mai bene nulla o forse sono semplicemente io quella disadattata.  Arriviamo davanti al Baravin, un ristorante nelle prossimità del mare, ci dirigiamo alla reception. Questo è uno dei pochi ristoranti abbastanza riservati per poter uscire tutti e tre insieme, come una famiglia felice, senza la presenza costante dei giornalisti. Non che io li abbia mai visti a breve distanza, solo da una finestra, nascosta da una spessa tenda scura.
Comunichiamo i nostri nomi e veniamo condotti a un tavolo vicino alle grandi vetrate, dove due individui ci attendono seduti di spalle. Ho il cuore che batte all'impazzata, a un tratto le mie gambe tremano e i palmi delle mie mani sono umide, sudaticce. Mia Mamma mi rivolge un'occhiata, neanche mi sono resa conto di essermi bloccata in mezzo alla sala, come se avessi la colla sotto le suole. Iris mi sorride, un po' incerta e si avvicina al mio fianco prendendomi sotto braccio. Un gesto che più che confortarmi mi fa irrigidire.

«Andiamo tesoro, non facciamo arrabbiare tuo padre. Ti stanno guardando tutti e non è carino essere fissati, non credi?» Cerca di spronarmi a muovere un passo, lo so che lo fa solo per non fare arrabbiare l'uomo che ha sposato.

«Credo di non farcela, io non volevo venire qui.» Confesso, col volto abbassato a guardarmi le scarpe firmare.

«Anthea, lo so credimi. Ma sei qui e un motivo c'è se alla fine sei venuta. Non lasciare le cose a metà, cammina al mio fianco e sorridi a testa alta. Sei una De Santis dopotutto.»

Semplicemente accolgo il suo braccio sicuro e passo dopo passo arriviamo dai tre uomini.
Un grande mazzo di rose spicca al centro del tavolo e io, semplicemente, ho sentito l'impulso di voltarmi indietro.

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Buongiorno miei lettori appassionati, eccomi nuovamente qui con un nuovo capitolo❤️ Come state? Da quanto attendevate questo capitolo? Io non vedevo l'ora di pubblicarlo perché finalmente si entra nel cuore della storia ma è solo l'inizio. Cosa succederà a questo pranzo? Un venerdì molto atteso, chissà perché ... Non faccio spoiler, ma ricordare che non è tutto oro quello che luccica, Anthea è molto ingenua purtroppo.
Al prossimo aggiornamento lettori amanti, la vostra autrice.

PS: Se volete passare a dare un'occhiata all'altra mia storia, "Spine Vermiglie" la trovate sul mio profilo, fantasy ottocentesco lupesco, pieno di mistero. Un abbraccio!

-vanessawhiteeeee 📖🕯️🤍

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