3. All i want is a good guy

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"Caddi in uno dei miei
patetici periodi di chiusura.
Spesso, con gli esseri umani,
buoni e cattivi, i miei sensi semplicemente si staccano,
si stancano: lascio perdere.
Sono educato. Faccio segno di si.
Fingo di capire, perché
non voglio ferire nessuno.
Questa è la debolezza che
mi ha procurato più guai.
Cercando di essere gentile
con gli altri spesso mi
ritrovo con l'anima a fettucce,
ridotta ad una specie di
piatto di tagliatelle spirituali.
Non importa...
Il mio cervello si chiude.
Ascolto.
Rispondo.
E sono troppo ottusi per
rendersi conto che io non ci sono"
Charles Bukowski

Età: 14 anni

Non ho un bel fisico, nessuno si volta per guardarmi.
Alle medie questo disagio era dissipato lentamente, eravamo tutti ancora giovani e pensieri come questi prendevano forma in poche menti, solitamente quelle più fragili e con il bisogno di sentirsi accettate, come la mia.
Non soffrivo di bullismo, però notare i vestiti appena aderenti che indossavano le mie compagne, le loro forme passanti da acerbe a uno sviluppo che avrebbe segnato il loro fisico per gli anni avvenire, come ostentavano le parti sicure e nascondevano quelle che avrebbero modificato volentieri; l'unico scopo alleggiante quei banchi spogli era di mostrarsi e puntare sull'estetica, poiché la gente si avvicina unicamente per quella, pochi lo fanno per il carattere.
Alcuni sono schietti e palesano le preferenze, interagiscono con chi ritengono del loro livello e ignorano chi prova a raggiungerlo, perché in questa società vige un'unica regola: se fisicamente sei indatto, non verrai considerato.
Non ho mai avuto la pancia piatta, le gambe magre, i polsi grandi come la circonferenza ottenuta unendo pollice e mignolo, i fianchi stretti o il viso segnato.
Il contrario, sulla bilancia quei chili in più che non riuscivo a smaltire mi tartassavano, può un numero qualunque diventare un mostro pronto a inghiottirti?
Per questo, nei periodi stressanti, lo stomaco si serrava e, se ingerivo più cibo del necessario perché avevo digiunato tutto il giorno, correvo in bagno e due erano le dita che usavo per espellerlo.
La gola ardeva, un sapore amaro mi invadeva il palato, le lacrime si raccoglievano ai lati degli occhi e bagnavano le ciglia, la pelle diventava pallida e una patina di sudore imbrattava la fronte; mi adagiavo sul pavimento stremata, la testa vorticava e i sensi di colpa erano tempestivi a bussare alla porta del bagno, incombendo sul mio corpo debole e incuranti di spegnere l'acqua del lavandino che, rapida, copriva i miei conati.
Inclinavo il collo all'indietro, posandolo sulla ceramica della tavoletta, fissando a vuoto il soffitto.
Sollevavo la manica della felpa, scoprendo l'avambraccio già rosso dai pizzicotti precedenti; prendevo tra pollice e indice un lembo di pelle delicata, stringevo con le unghie finché non si arrossava, bruciava e continuavo a ripetermi una dannata frase, sempre la stessa.
Non lo rifarò, lo giuro, questa è l'ultima volta.
Puntualmente non lo era mai.
Alle superiori questo disagio era aumentato, celavo il mio corpo e utilizzavo una maschera, mi aiutava a sentirmi a mio agio e risparmiavo agli altri l'orrore che ero, che sono.
Mi paragonavo alle altre ragazze, audaci e sfidanti a testa alta le avversità e i pregiudizi.
Perché non ero come loro, perché non possedevo la loro sicurezza?
Perché le paranoie sul non essere abbastanza dovevano per forza perseguitarmi incessantemente, durante il silenzio della notte?
Mia madre si accorgeva della mia perdita improvvisa di peso e, seppur mi faceva un velato complimento per evitare di affrontare l'argomento direttamente e mettermi in soggezione, anche lei batteva le nocche sul legno della porta, mi richiamava e io la confortavo, dicendole che stavo bene, che sto bene e che va tutto bene.
Invece di bene non c'era nulla, il vuoto mi riempiva, cercavo di vomitare pure quello ma non ce la facevo, navigava indisturbato e neppure io riuscivo a fermarlo, a fermarmi.
Oltre a mia madre, soltanto un'altra persona sapeva delle mie insicurezze: Adeline.
Lei era sempre lì, non mi giudicava ma cercava di capirmi, non sviava la conversazione, contrariamente a me.
Se succedeva in luoghi pubblici, mi teneva la mano e mi spostava i ciuffi ribelli, evitando di imbrattarli con il mio malessere.
Se accadeva in casa, attendeva fuori dal bagno e, una volta certa avessi terminato, chiedeva il permesso di entrare. Lei avrebbe costantemente potuto, non solo nella stanza ma pure nella mia anima.
Poi ci rannichiavamo sulle piastrelle lucide, Adeline prendeva una spazzola e districava i miei nodi castani, contrastanti ai riflessi biondi dei suoi capelli mori.
«Non devi punirti per piacere agli altri. Se non ti accettano, il problema sono loro, non tu» Accennava sia al gabinetto che ai miei avambracci marchiati.
Facile per lei parlare, anche Adeline aveva dei chili in più, eppure su di lei non stonavano, anzi le davano più formosità e andavano a riempire gli spazi giusti, aumentando il volume delle sue forme e senza rovinarle.
Se io assumevo peso, finiva rovinosamente sulla pancia e sulle cosce, sulla prima si formavano rotolini e le ultime sfregavano tra loro a ogni maledetto passo.
La sera, mentre mia madre dormiva, scaricavo applicazioni per gli esercizi e li svolgevo nella massima quiete, un segreto che conoscevamo solo io e la mia migliore amica, la quale mi rimproverava e provava a mutare le mie idee, tuttavia ero testarda e le sue parole non mi toccavano profondamente, mi scalfivano superficialmente.
Mi paragonavo perfino con lei, Adeline Eversley era la ragazza più bella che avessi mai visto, nessuno le resistiva e lei sembrava non accorgersene, o forse non voleva farlo.
Messe vicine, sfiguravo e lei brillava, lo faceva di continuo.
Quasi avesse una luce dolce nelle iridi celesti, il colore del cielo non era nulla comparabile a loro; il sole aveva impresso i suoi raggi nei suoi capelli castani; i tratti del volto erano disegnati da un architetto e la melodia della voce composta da musicisti esperti.
Lei era tutto per me, la mia roccia, la spalla su cui piangere, il faro in mezzo a una tempesta, l'ancora di salvezza, una sorella non di sangue, la mia migliore amica.
Non le sarei mai stata abbastanza grata, io e lei condividevamo tanto, se non tutto.
Ognuno dei suoi lati mi colpiva, lasciavano un segno indelebile dentro di me.
Non riuscirei a immaginare la mia vita senza il suo sorriso, le sue battute o le nostre uscite, semplicemente non sarebbe la mia vita ma quella di qualcun altro.
Perché se io esistevo, Adeline coesisteva al mio fianco.
Potrebbe il mare vivere senza la sua spiaggia?
No, l'acqua non saprebbe dove posarsi e la spiaggia si sentirebbe persa nel non avvertire la brezza marina.
Io ero il mare e lei la spiaggia, entrambe indispensabili per l'altra.
Questa era la nostra amicizia, l'unione che sarebbe sopravvissuta a tutto, persino alla morte.

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