22 - Compagni

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Ci siamo.

Daer stava respirando affannosamente. Tentava di non darlo a vedere, ma sotto il mantello il suo corpo tremava, la pelle percorsa da brividi di freddo.

Non aveva mai fatto ritorno nel Barët Flaam, nella dimora dello stregone, ma ricordava bene quel sentiero. Tra gli scintillii delle foglie gli sembrava ancora di rivedere il riflesso di qualche compagno.

I suoi compagni… i primi, quelli dell’esercito di Serpente. Da quanto non li ricordava?



Ergaf

Campo di battaglia, tende dei guaritori

9 anni fa


Daer, svegliati.

Aprì gli occhi di scatto, emettendo un sottile gridolino che gli si era strozzato in gola.

“Ti sei svegliato finalmente. Come ti senti?”

Una figura nebulosa stava sopra di lui. Tentò di metterla a fuoco, sbattendo le palpebre, e finalmente i contorni di un volto anonimo, dalla pelle diafana e gli occhi solcati da profonde occhiaie bluastre.

“Dove…”

La domanda gli morì sulle labbra mentre i ricordi tornavano lentamente. Avevano marciato assieme al plotone di Serpente per mesi, passando da un committente all’altro, senza mai ricevere un’offerta ritenuta decente, finché non erano stati ingaggiati da una città delle Terre del Nord per una battaglia campale.

La notte prima dello scontro, lui e Reyk non avevano chiuso occhio. Tra loro passavano solo emozioni colme di paura, dubbio e terrore.

La mattina, si erano presentati soffocati nelle loro armature, le armi strette in pugno, i compagni che li stritolavano in tutti i lati. Al suono del corno, che intimava di disporsi, si erano ritrovati spintonati da guerrieri anziani che sapevano dove e come posizionarsi, e ben presto si erano trovati costretti in posizione.

In prima linea.

Merda!

Dopo, tutto era diventato lentissimo. Le urla giungevano ovattate alle orecchie, gli ordini si disperdevano nell’aria con una lentezza esasperante. I due draghi del plotone, dalle scaglie brillanti che scintillavano nel cielo, si erano alzati sbattendo lentamente le ali nel vento afoso. All’ordine del comandante, si erano mossi, e i piedi marciavano lenti, pensanti, mentre anche i nemici si avvicinavano lentamente.

Tutta quella lentezza con cui Daer vedeva il mondo si ruppe come un vetro infranto quando arrivarono a contatto coi nemici. Alzò l’ascia, parando un primo colpo violento che si abbatteva su di lui…

… poi un’arma che calava verso di lui da lato…

… lui che si spostava alzando l’ascia…

… e gli occhi del nemico che si allargavamo, fissandolo con stupore.

Occhi marroni, normali.

Occhi che avevano in sé la luce della vita.

Occhi in cui vide quella luce indebolirsi, spegnersi, mentre il nemico cadeva sulla lama brillante della sua ascia.

“Ehi, ragazzo, come ti senti?”

Si riscosse dai ricordi. La figura dalle occhiaie profonde lo stava ancora fissando.

Idiota, sei nell’infermeria. Dille che stai bene, così mi raggiungi fuori.

“Bene… Sto bene…”

La figura strizzò gli occhi, quindi si allontanò di un palmo, permettendogli di capire che si trovava nella tende dei guaritori, eretta ai limiti del campo di battaglia.

Reyk, che ci faccio qui?

Il gemello fece scorrere tra le loro menti alcune immagini. Avevano combattuto, erano rimasti a combattere fino alla fine, mulinando le armi con violenza. Poi Serpente era arrivato a contatto col comandante nemico, avevano combattuto e lo aveva vinto, dando la vittoria al loro plotone. E a quel punto, con un sorriso ebete stampato sul volto, Daer era svenuto.

“Hai una brutta ferita alla gamba che abbiamo curato con la magia, e vari tagli slabbrati sul braccio che abbiamo medicato. Se te la senti, puoi andare.”

Si alzò dal lettuccio mentre l’alzatrice si allontanava. Nel poggiare i piedi per terra, la testa iniziò a girare e gli parve di avere la vista annebbiata, ma la voce del fratello subito gli esplose in testa.

Vedi di non svenire un’altra volta.

Si appoggiò al letto, riprese fiato e, esprimendo un sorrisino sprezzante, uscì dalla tenda.

Erano in una steppa brulla, resa viva solo dai colori smorti delle tende e dal tintinnare delle armature. Un odore di sabbia si alzava dal terreno polveroso, in mezzo a cui alcuni piccoli steli tentavano inutilmente di spiccare vitali in quel nulla sassoso.

Reyk gli stava venendo incontro. Oltre le corte braghe e la sottile camicia, il resto del corpo era disseminato di bende che coprivano più punti, in parte sporche di sangue, in parte macchiate di polvere.

Si fissarono per un attimo, in un secondo incredibilmente privo di pensieri, poi un calore insolito attraversò le loro menti, un calore di affetto e gioia. Un calore che diceva Siamo vivi!

Il resto della giornata fu un pigro girovagare tra le tende, in cui assaporarono gli odori con nuova intensità, riempirono gli occhi di colori più vivi del solito e fecero scivolare tra le menti i suoni come se li udissero per la prima volta.

“Pivellini!”

La voce li sorprese alle spalle. Si voltarono mettendo le braccia lungo i fianchi, sull’attenti. Serpente li squadrava con uno sguardo interrogativo.

“Comandante.”

“Siete sopravvissuti?”

Rimasero ammutoliti. Che razza di domanda era?

“In battaglia vi hanno tagliato la lingua?”

“No, comandante. Noi… sì, siamo…”

“Oh, state zitti!”

Li sorpassò con passi lunghi che alzavano nuvole di polvere, lasciandoli congelati sull’attenti. Dopo cinque o sei passi si voltò.

“Dannazione, pensate mi sia disturbato a salutarvi perché non avevo altro da fare? Seguitemi.”

Riprese ad avanzare subito, portandoli quasi a chiedersi se stesse davvero parlando con loro prima di scattare a seguirlo.

Molti nel campo si fermavano sull’attenti a salutare il comandante e a urlare inni al comandante che lo aveva portati alla vittoria. Lui faceva un cenno a tutti ma non rallentava mai il passo. Solo a una tenda si fermò e parlottò con un soldato. Loro per poi riniziare a seguirlo.

“Per tutti noi, questa è una vittoria. Per quel soldato no, suo fratello ha perso la vita sul campo.”

Non si capiva se stesse parlando con loro o da solo. Certamente, quella frase provocò nei due gemelli pensieri cupi. Se uno di loro fosse morto, l’altro che avrebbe fatto?

“Bene, eccoci arrivati.”

Si era fermato dinnanzi a un gruppo di tende disposte a quadrato. In mezzo era radunato un gruppo di mercenari, molto numeroso. Stavano cantando canzoni oscene e urlando frasi scomposte.

“Questa è la squadra comandata dall’ufficiale Sdang. Lo avete già conosciuto, voleva tagliare la testa a uno di voi due per averlo urtato a Gazar.”

Il ricordo dell’ascia fredda, che sfiorava il collo di Daer, tornò alla mente dei due ragazzi.

“È una squadra che affronta missioni di spionaggio o combatte nelle zone più… calde. Il vostro dono potrebbe essere utile in vari frangenti, quindi da questo momento farete parte di questa squadra.”

Non diede ai due gemelli il tempo di rispondere. Entrò semplicemente nel quadrato di tende, facendo interrompere, con la sua irruzione, le canzoni e le urla. Quasi tutti si misero in piedi, sull’attenti, ma molti barcollarono vistosamente, facendo cadere boccali di birra sul terreno assetato.

“Ufficiale Sdang.”

Un nano si alzò da terra, con notevoli difficoltà. Barcollò fino al comandante e gli rivolse un sorriso ebete. Alcuni rivoli di birra uscirono dalle labbra e colarono lungo la barba nera avvolta in treccine elaborate.

“Questi sono i due gemelli di cui ti ho parlato. Ora sono ai tuoi ordini.”

Il nano li squadrò distrattamente, poi alzò il boccale in alto.

“Un brindisi per questi due pivellini!”

Gli altri mercenari alzarono i boccali e urlarono. Qualcuno avanzò a passi barcollanti e spiaccicò tra le mani dei due ragazzi dei boccali colmi di scura birra dei nani.

“Vi conviene brindare, altrimenti Sdang vi taglierà davvero la testa.”

Il comandante si era abbassato e aveva sibilato quelle parole nelle orecchie dei due ragazzi. Essi obbedirono, quasi fosse un ordine, e quando alzarono le teste il comandante era già scomparso.

Mi è piaciuto come ci ha permesso di scegliere.

Sdang si era già dimenticato di loro e le canzoni erano riprese, assieme alle urla e agli schiamazzi.

“Pivellini, venite qui.”

La voce, stranamente lucida, apparteneva a un umano con un parapetto in cuoio da cui uscivano le braccia più grosse mai viste dai due gemelli, simili a tronchi d’albero nodosi. Indossava solo corte braghe, da cui spuntavano gambe ricoperte di cicatrici e fasci di nervi. Ai suoi piedi stava acciambellato un grande cane dal pelo marrone con chiazze nere. Aveva un grosso muso solcato da due lunghe cicatrici, simili a fiumi aridi, e sembrava dormire tranquillo nonostante il caos.

“Benvenuti, anche se non credo il comandante vi abbia fatto un bel regalo. Noi siamo la squadra suicida del plotone. O gli avete fatto un’ottima impressione, oppure vi odia per qualche motivo.”

Fu con quel benvenuto che conobbero Cane, il guerriero che combatteva in simbiosi con Ringhio, il cane acciambellato ai suoi piedi.

Poco dopo si unì anche Gamed, un guerriero dalla pelle nera come la notte senza stelle. Daer si perde ad ascoltarlo parlare, a sentire i suoi racconti, perché Gamed era una figura che aveva creduto una favola fino ad allora; era un didimos, un umano che condivideva una simbiosi particolare con un altro essere, in questo caso il drago Stris. I didimos erano uniti da un legame speciale, che, come i gemelli, gli permetteva di condividere i pensieri. Erano sempre di due razze diverse, anche se uno dei due era sempre un umano o un elfo.

“Ma la cosa triste, è che i didimos devono incontrarsi per scoprire di esserlo.”

Daer annuì a quelle parole di Gamed, anche se il suo sguardo perso parve fare capire all’umano che non aveva capito dove voleva andare a parare.

“Vedi Daer, il legame che unisce due didimos, che unisce me e Stris, è un legame che scalda il cuore, che rende la vita piena. Senza Stris, io sarei nulla, sarei infelice. Quindi, per me è un dolore pensare che ci potrebbero essere didimos, nei due mondi, che non si sono mai incontrati, e che mai sapranno di esserlo. Vivranno una vita priva di gioia, incompleta, e non capiranno mai il perché.”

Sentito Reyk? Avevamo udito dei didimos solo nelle ballate, non pensavo…

Solo in quel momento si accorse che il gemello stava pensando totalmente ad altro, da minuti. Ripercorse il filo dei suoi pensieri e vide che stava guardando un gruppetto di soldati.

Si voltò a sua volta in quella direzione mentre comprendeva che non stava guardando tutti i soldati.

Stava guardando una ragazza elfica, con lunghi capelli verdi, luminosi come le gemme degli alberi in fiore, e dalla pelle bianca come le corna lucidate di un rolcopa.

Daer…

Stava fissando i suoi movimenti, i suoi gesti, ogni minima danza della polvere sotto i suoi piedi.

Daer si accostò a Cane e gli indicò la ragazza.

“Chi è quella?”

“L’elfa? È Malan, una dei più temibili mercenari di tutto il plotone.”

I Trenta MercenariDove le storie prendono vita. Scoprilo ora