Prologo

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La scuola non era mai stata il suo punto di forza, anzi, proprio per niente. Diciamo che qualsiasi docente affermava con certezza che Daniele Trumatina non ne voleva capire proprio un bel niente. Ma niente davvero. Non era semplicemente qualcosa che si potesse migliorare con qualche lezione in più di recupero, o magari frequentando il doposcuola nel pomeriggio. No, lui non ne capiva proprio niente. Non sopportava stare sei ore tutti i giorni in quelle quattro mura, con dei compagni di classe con cui non aveva legato nemmeno a sperarci, a sentire parlare di matematica, storia, italiano, francese, economia e chissà quale altra materia. Passava l'anno scolastico per miracolo, e forse pure per pietà.

Tornava a casa e i suoi genitori neanche si prendevano la briga di chiedergli come fosse andata la giornata. Suo padre lavorava in fabbrica dalla mattina alla sera e raramente lo vedeva a cena. L'unico momento in cui potevano scambiare qualche frase era la domenica sera, durante le gare di Formula Uno. Per tutto il resto della settimana, lui, un padre, era come se non l'avesse mai avuto. Non una telefonata, un messaggio, un accompagnamento da qualche parte: lui doveva sempre lavorare. 
Sua madre, d'altro canto, lavorava come parrucchiera nel negozio sotto casa. Era un posto tranquillo, niente di tanto eccezionale; qualche cliente che impazziva al mese ci stava, ma niente che non si potesse controllare. Non avevano un gran rapporto, ma lei ogni tanto lo incoraggiava, e lui, molto timidamente, la ringraziava. 
La sua era una famiglia normale, o almeno, normale per i loro standard. Daniele era come se non esistesse.

Daniele aveva due amici, due fissati con la pallavolo, così tanto che lo convinsero a provare e, alla fine, si iscrisse. Ogni pomeriggio si trovava al palazzetto della sua città, un posto che aveva una vita tutta sua. Da fuori sembrava mezzo scassato, con la luce che andava e veniva su tutto il campo. Non avevano neanche delle magliette ufficiali; si allenavano con quei quattro spiccioli che il comune gli regalava, forse più per pietà che per volontà di creare una squadra forte.

Quel giorno era di allenamento intensivo: correvano intorno al campo per una decina di minuti, chiamato riscaldamento o, come l'aveva soprannominato Giò, l'amico di Daniele, "ammazza cani". Far correre per un palazzetto così grande dei ragazzini di diciassette anni era pura follia. Il suo allenatore lo sapeva bene, ed era per questo che, alla fine degli allenamenti, li faceva correre per altri dieci minuti. Non avevano una sala pesi, degli arbitri, degli assistenti, niente di tutto questo. I ragazzi stessi facevano tutto da soli.

Tornare a casa dopo ogni allenamento era stancante: si lavava, mangiava quel poco che sua madre gli faceva trovare, e filava in camera a dormire.

I compiti di scuola? Non pervenuti. 
Vedere la finale del campionato europeo maschile di pallavolo? Sempre.

E tu sei lontano, lontano da meDove le storie prendono vita. Scoprilo ora