III

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Per tornare da Rebibbia a casa mia ci volevano venti minuti di macchina.

Non era una strada nuova. Non era una strada difficile. Destra, sinistra, dritto, rotatoria, prima uscita, dritto, e in un attimo ero a casa - dopo dieci anni di carriera avrebbe dovuto essere memoria muscolare.

A quanto pare no.

Impiegai quarantacinque minuti a fare venti minuti di strada, e solo perché al quarto errore mi arrischiai a fare un'inversione per cui un poliziotto mi avrebbe tolto la patente.

Rosa Ricci. Sempre lei, sempre capace di entrarmi nella testa e a scombinarla. Diciotto, ventotto, trentasette, ottantacinque anni - l'età non faceva differenza. Se gli ultimi dieci anni non mi avevano guarito, cosa avrebbe potuto?

Dopo che avevo lasciato Napoli, per mesi il vuoto si era insidiaro dappertutto. Nel letto matrimoniale della mia camera, nel silenzio che occupava la casa mentre Futura dormiva, nel telefono che non squillava mai.

Era stato un sollievo trovare lavoro. Non avevo reale bisogno di soldi a breve termine perché il programma di protezione mi mandava abbastanza per sostenere me e Futura, ma stare a casa tutti i giorni mi opprimeva. Avevo trovato un impiego part-time da un parrucchiere, dove mi avevano promesso che non appena si fosse liberato un posto, sarei stato assunto a tempo pieno. Per il momento avevano bisogno di me nei giorni di punta - venerdì, sabato, domenica.

Perfetto, mi ero detto. Meglio di niente.

E se avessi avuto un minimo di stabilità emotiva, sarebbe stato abbastanza. Non lo sapevo, ma in dodici mesi esatti Cloe - l'addetta alla messa in piega - avrebbe lasciato il lavoro dopo un fortunato fidanzamento con un milionario che non l'aveva lasciata all'altare - donna fortunata.

Ma quattro giorni liberi su sette erano troppi. Come riempire il tempo? L'idea di toccare una donna mi nauseava. L'idea di toccare un'altra donna, perché nella mia testa fallata ancora c'era una donna rispetto a cui essere altra, mi rovesciava le viscere. Futura schiacciava sonnellini troppo lunghi, il sole tramontava troppo tardi e, come se non bastasse, la mia testa non mi lasciava in pace nemmeno di notte.

Per questo mi ero iscritta all'università. A Giurisprudenza, perché mi interessava e perché l'idea di ancorarmi a un obbligo che mi assorbiva così tanto tempo per cinque anni mi tranquillizzava. 1826 giorni sarebbero stati abbastanza per ripulirmi. I drogati ci riuscivano. Gli alcolizzati ci riuscivano. Quindi sarebbe venuto il giorno in cui non avrei ripensato a quella scalinata infinita, al suo trucco colato, alla macchina che scompariva all'orizzonte.

Ventiquattr'ore per essere un padre single, lavorare e studiare a tempo pieno non erano abbastanza, e quell'assenza di respiro mi deliziava.

Non avevo iniziato con l'idea di specializzarmi in diritto penale. Dopo un intervento a lezione, però, il professore si era complimentato per le mie deduzioni sulle motivazioni di un assassino in un caso già chiuso che aveva presentato alla classe - lo sapevo che era un privilegio, essere notati dal professore, ma non mi ero sentito privilegiato.

Mi ero sentito sporco. Fuori da Napoli, lontano da mia madre, rinnegato dalla donna che amavo in nome della mafia - non cambiava chi ero, chi sarei stato se il mondo avesse seguito le sue solite regole, chi non ero diventato.

Ero questo, soprattutto dieci anni prima - il punto di incrocio fra tutto ciò che non ero o non mi era stato concesso di essere. Non ero un figlio, o un mafioso, o un marito. Non ero nemmeno Carmine Di Salvo, perché mi avevano affibbiato un nome posticcio che non avevo mai sentito mio. Si era smarrito negli anni universitari, sulle bocche dei pochi a cui mi ero presentato.

Dall'altro lato delle sbarreDove le storie prendono vita. Scoprilo ora