I.

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"No," replicai.

Gianni mi aveva invitato a bere un caffè. Temerario in retrospettiva, considerando ciò che mi voleva chiedere - ma immaginavo che l'istinto all'autoconservazione fosse un po' basso nella nostra cerchia. Avrebbe dovuto sapere che mai, mai nella vita avrei potuto acconsentire.

Vuotai la tazzina di caffè, che la barista mi aveva appena allungato sul piano con insolito tempismo. "No," ripetei.

All'improvviso le ultime settimane avevano senso. La sospetta telefonata di Silvia, che non sentivo da quando l'avevo tirata fuori dal carcere quattro anni prima quand'ero poco più di un praticante. L'insistenza di Gianni nel volermi vedere immediatamente, come se con i suoi lavori di produzione non fosse a Roma un giorno sì e l'altro pure. Il doppio inganno di Filippo e di Naditza, che da settimane mi ricordavano a turno che avevo un caffè in sospeso e si lanciavano sguardi circospetti come Futura e la sua migliore amica quando incappavo in un argomento-che-non-poteva-essere-nominato, come il nome di un ragazzetto della loro classe per assolutamente Futura non aveva una cotta. Ma mi ero accorto di Tommaso Bonafede e mi ero accorto pure che i miei due migliori amici si comportavano in modo bizzarro da almeno due settimane.

Per questo avevo deciso di incontrare Gianni. Avevo immaginato fosse una qualche offerta lavorativa, ma mai quella. Da quando ero uscito dal programma di protezione dopo l'arresto di mia madre, avevo riallacciato i rapporti con Filippo e attraverso di lui con tutti i miei ex compagni dell'IPM - o meglio, quasi tutti - quindi ero avvezzo a richieste di far riaprire casi ormai archiviati.

"E Silvia?"

"Era diverso," ribattei.

"Era accusata di omicidio."

"Perché l'avevano incastrata."

"Non è ciò che pensavano allora," disse Gianni. "Sei stato tu a dimostrarlo. Nessuno ci riusciva, ma tu sì."

Perché conoscevo gli altri detenuti. Perché anche se l'avevo rigettata, la criminalità mi scorreva nelle vene come sangue infetto, e avevo scoperto all'università che questo mi rendeva sempre un passo più vicino a loro rispetto agli altri avvocati. E mi era stato sufficiente incrociare lo sguardo con Silvia durante l'orario di visita per sapere che non era una di loro - una di noi.

Avevo impiegato mesi, ma infine avevo provato la sua innocenza. Era stata la mia prima vittoria. La prima di una lunga serie, anche se da allora avevo preferito accettare casi meno ambigui. Alcune volte, quando il colletto della camicia mi stava troppo stretto, sceglievo un caso pro bono su cui consumarmi il fegato per qualche mese - di solito adolescenti che il sistema non aveva protetto e aveva stipato in una cella dell'IPM per crimini minori di cui un qualunque avvocato decente avrebbe potuto diminuire la pena.

Ma mai omicidi. Anche se ce ne erano, anche se alcune volte mi cadeva lo sguardo su qualche foglio che mi ricordava che pure io avevo ucciso due vite, e che il mio plico non avrebbe mai potuto riassumere la quantità di circostanze che mi avevano spinto in quella posizione. Che forse fra di loro c'era qualcuno degno di essere difeso, qualcuno che non aveva mai incontrato il suo Massimo.

Nello studio avevo dei colleghi il cui sogno nel cassetto era scagionare un omicida. Mi invidiavano perché ci ero riuscito prima di loro e si chiedevano perché non navigassi più in acque rischiose. A volte lasciavo le cartelline su cui avevo un più acuto sesto senso sulle loro scrivanie - ma raramente avevano il coraggio di fare ciò che millantavano, e ancora più raramente ottenevano un qualche risultato.

Ma forse era meglio di così. Per una Silvia c'erano dieci Edoardo che - per quanto fosse doloroso accettarlo - non si sarebbero mai salvati. Erano ragazzi nati con un cappio attorno al collo, ma erano destinati a non rendersene conto finché non era troppo tardi.

Dall'altro lato delle sbarreDove le storie prendono vita. Scoprilo ora