3.IL FASCINO DI UN PAIO DI OCCHI

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Passai con i ragazzi l'intero pomeriggio. Mi raccontarono che, per tirare su qualcosa, avevano deciso di mettere su un gruppo jazz-funk chiamato I Cereali A Colazione; inutile dire che la mia reazione fu di scoppiare a ridere così tanto che dovetti appoggiarmi al tavolino del bar.

Ultimamente, però, stavano pensando di cambiare stile musicale e orientarsi verso il rock, un genere più vicino alle loro corde. Mi augurai che insieme al genere cambiassero anche il nome.

Guardai l'orologio: dovevo sbrigarmi o sarei arrivata in ritardo il primo giorno di lavoro. «Ragazzi, devo andare a lavorare. Corro a prepararmi», dissi alzandomi.

«Vuoi un passaggio?» mi chiese Victor, gentile.

«No, grazie. Devo anche comprare le sigarette», rifiutai abbracciandolo.

«Fumi ancora quella robaccia delle Merit?» ridacchiò Merco.

«In realtà, sono passata alle Marlboro», risposi con un sorriso, mentre Victor sgranava gli occhi.

«La differenza tra chi lavora e chi no!»

«Dai, devo andare», dissi raccogliendo le mie cose.

«Ci vediamo domani in facoltà!» disse Daniele con cortesia.

«Non lo so. Domani alle nove ho Fisica Terrestre e sono terrorizzata», risposi mentre inforcavo gli occhiali da sole.

«Di Fisica Terrestre, o del professore?»

«Penso entrambi», ammisi con un'alzata di spalle.

Ed era vero. Il fatto che il professore fosse così giovane mi gettava ancora più nel panico.

Daniele scoppiò a ridere, gettando la testa all'indietro. «Ma dai! Mio cugino è la persona più tranquilla di questo mondo.»

«Vedremo. Vado!»


Arrivai al lavoro puntuale. Mi ero cambiata, indossando comodi leggings neri con righe laterali bianche e una t-shirt bianca a maniche corte che lasciava scoperta una spalla, rivelando il tatuaggio fatto a Londra. Per praticità, avevo legato i capelli in una treccia che arrivava a metà spalla.

«Ehilà, collega!» Michele, il titolare del locale, mi salutò con una pacca sul braccio. «Come stai?»

«In forma, capo!» risposi, alzando il pollice e l'indice della mano sinistra.

Avevo già lavorato in quel locale, quindi avevo una certa confidenza con lui.

Per quasi tutto il pomeriggio non venne quasi nessuno, così lo passammo chiacchierando e fumando tranquilli. Mi raccontò che aveva avuto un bambino dalla sua compagna, ma che era preoccupato per lui dato che era spesso malato. Gli proposi di andare a casa dalla moglie e dal figlio, che aveva di nuovo la febbre; gli dissi che me la sarei cavata da sola.

Non ci fu bisogno di insistere troppo, dato che non aspettava altro.

Così mi ritrovai completamente sola. Misi una playlist casuale e cominciai a canticchiare mentre sparecchiavo i tavoli nel grande dehor in legno antistante il locale. Ruppi due bicchieri e un posacenere di vetro. Per quanto potessi essere cambiata, la mia sbadataggine era rimasta la stessa.

Fu mentre svuotavo il cestello della lavastoviglie che inciampai nel laccio delle mie Adidas bianche, finendo contro l'espositore degli alcolici con un fracasso di bicchieri e, probabilmente, un livido sulla pancia.

«Ma che diavolo!» proruppi, con un'esclamazione che strideva con il mio aspetto infantile.

Sentii un risolino alle mie spalle. Strinsi gli occhi e mi girai verso il bancone, cercando di rimediare in qualche modo a quella bruttissima figura.

Fin dove volano gli aquiloni.Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora