Capitolo 8.

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In una pianura erbosa, lontana tanti passi quanti sono i pensieri che la mente umana ha la capacità di formulare in una giornata, una brezza leggera carezzava tutto ciò che la circondava. Il silenzio regnava sovrano quasi quanto i primi raggi dell'alba, che abbracciavano delicati le meraviglie dell'Isola che non c'è.
Il cielo era così perfetto e limpido da risultare surreale. E, in parte, lo era. Ogni cosa su Neverland veniva governata dalla magia, elemento che veniva trattato con poca dimestichezza dalla razza umana.
Il sole si scorgeva leggermente da quella pianura, per non dire difficilmente; era circondata dalla fitta boscaglia, da tanti di quegli arbusti che il conto sarebbe stato confusionario. La distesa, caratterizzata da un verde sfavillante e vivo, era molto estesa.
Dall'alto, nonostante sembrasse completamente deserta, si potevano osservare una figura scura e molte altre - distanti dalla prima - poste in fila perfetta e orizzontale.
E poi, si udì un impercettibile fruscio.
Qualcosa che si scagliava.
Qualcosa che veniva colpito.
L'aria fresca a frizzante venne attraversata da una freccia che, quasi senza essere stata percepita, era stata scagliata contro una delle molteplici figure in fila. Un bersaglio.
La punta dell'arma era incastrata nella figura circolare più piccola dell'oggetto da allenamento.
Perfetto, pensò l'arciere.
Codesto, era la figura scura. Vestita di vestiti neri come la pece, che richiamavano i colori e le sfumature della notte. La determinazione e la serietà che ostentavano impeccabili sul viso della tiratrice ne erano la prova.
Quella figura non era nient'altro che la giovane e inesperta Tara.
Beh, tanto inesperta non pareva più.

L'angolatura del braccio era senza imperfezioni, i muscoli tesi e rilassati al contempo. Per poter tirare con l'arco ci si doveva concentrare soprattutto sulla respirazione.
Non sapeva come ci riusciva.
Come riusciva a scoccare le frecce ad una tale velocità, con quella intensità. Così bene da sembrare un'arciere professionista, che praticava quella disciplina da molti anni.
Ma non era così. Era stata costretta a diventare così brava e in così poco tempo. Doveva sapersi difendere in quel posto e, a questo punto, non si parlava più solo di magia.
Così, quando la fata dai capelli dorati le aveva chiesto quale arma avrebbe preferito maneggiare, lei aveva optato per l'arco e le frecce. Era stata una scelta istintiva, valutata sul momento.
Ce l'aveva nel sangue le qualità per poter usare quell'arma, lei.
Solo che ancora non lo sapeva, ai tempi. L'aveva scoperto e ne era rimasta sbalordita quanto entusiasta.
Sapere di poter avere più probabilità di sopravvivere e di poter fronteggiare l'eterno bambino le aveva donato sollievo.
Il gioco era ufficialmente iniziato.
Il gioco di Pan. Si prolungava da almeno tre mesi, se i conti della Salvatrice non erano errati.
Tre fottutissimi mesi su quella tetra isola.
Aveva sempre covato una buona dose di curiosità su Neverland; nonostante le brutte situazioni in cui era andata ad inceppare, le orribili situazioni che aveva vissuto e ben altre peggiori che avrebbe passato, la giovane mora era sempre stata attratta dalle meraviglie e dalle insidie dell'isola.
Da quando si era ritrovata su quella distesa di sabbia ispida e fredda.
Da quando aveva visto i primi raggi del sole appoggiarsi sulla sua pelle chiara che da allora, era divenuta olivastra. In altre circostanze, ne sarebbe stata felice; prendere colorito nella stagione estiva l'aveva sempre esaltata quando viveva ancora a Londra, calcolando sopratutto che il sole in quella città nebulosa era quasi raro da vedere. Ma lì, sommersa da tutte quelle responsabilità e dalle ansie miste alle paure, non aveva di certo il tempo di pensarci.
La sua mente si svuotò, mentre continuava il suo allenamento mattutino; questo era uno dei pregi che otteneva praticando quella disciplina. La rilassava e la rinvigoriva; questi probabilmente perché si sentiva più forte.
Una, due, tre e poi ancora.
Una freccia dopo l'altra.
Dopo che ebbe centrato tutti e cinque i bersagli, cominciò dal primo della fila, situato a destra. La seconda freccia però, che si sarebbe dovuta scagliare prepotentemente nel bersaglio, non raggiunse la meta prestabilita della ragazza.
Quest'ultima spalancò impercettibilmente gli occhi, senza far trasparire lo stupore e alzando l'arma leggermente, avvicinandolo al suo corpo. Minaccia. Nel suo campo.
Un divertito ragazzo immortale la fissava indecifrabilmente, con il solito ghigno ad ornare le belle labbra, stringendo con una mano la freccia che la mora aveva tirato; tesa e che sfiorava leggermente il suo petto.
«Buongiorno, Tara.»
«Cosa ci fai qui, Pan?» sbottò sulla difensiva, stringendo maggiormente l'arco.
«Sai che il tuo nome in una lingua terrestre vuol dire Salvatrice?» le domandò, mettendosi a giocare con la freccia liscia di legno, sorridendo innocentemente.
Lei alzò un sopracciglio, scettica, e rispose con un'espressione ostile.
«Già, è proprio così,» continuò Peter, cambiando l'espressione del viso, rendendola malevola, «i tuoi genitori ci hanno azzaccato alla grande. Oh, forse dovrei dire solo tua madre? Tuo padre era ancora vivo quando era arrivato il momento di scegliere il tuo nome?»
Tara si irrigidì al solo sentir nominare il genitore defunto; in breve una rabbia malsana cominciò a traboccarle dalle scure iridi, che ne brillarono focose.
«Non permetterti più di nominare mio padre.» commentò con un tono che non permetteva repliche.
Peter Pan sorrise; un sorriso strano, decisamente fuori dal suo repertorio o, almeno, da quelli che la ragazza aveva potuto conoscere. Ben presto l'aura colma di oscurità di lui si riempì di elettricità statica.
La stessa, si diffuse nell'aria, avvolgendo con le sue braccia curiose i loro corpi, arrivando fino ai confini della pianura erbosa e avvicinando i loro spiriti.
A Peter piaceva la nuova Tara.
Aveva subito un cambiamento decisamente interessante, come pensava, e la cosa lo esaltava e non poco. Era diventata più indipendente, combattiva e determinata.
A volte aveva persino pensato che assomigliasse ad un pirata o meglio, ad un soldato. Qualche volta, nelle rarissime volte che era sceso sulla terra, ne aveva visto qualcuno che combatteva per la proprioa patria.
E, sempre qualche volta, Tara gli ricordava quegli uomini in verde scuro che combattevano con l'anima per difendere i loro cari e per arrivare al loro obbiettivo.
Rendere la loro terra un posto sicuro.
Era quello che la giovane stava cercando di fare? Rendere Neverland un posto più sicuro?
Finché c'era lui, l'impresa risultava alquanto improbabile.
Lo aveva sempre pensato.
Erano queste tipologie di pensieri a spaventare il biondo; erano carichi di bontà e buoni propositi, e si presentavano frequentemente da quando aveva conosciuto la prima Salvatrice.
Ogni giorno che passava aumentava la sua voglia e la sua necessità di eliminarla, di estrarle il cuore dal petto e guardarla morire tra le sue braccia e non solo.
Aumentava anche la voglia di averla al suo fianco. Questa certezza lo faceva quasi impazzire e raggiungere il limite della sanità mentale.
Sempre che gliene fosse rimasta, di sanità mentale. Comunque, ci aveva provato più volte a strapparle l'organo vitale dal petto, nelle varie volte che aveva organizzato le sue innumerevoli sfide con la mora. Ovviamente, ogni volta che la sfidava, mandava sempre un suo Sperduto ad avvisarla. E, sempre rimanendo nell'ovvietà, lei non poteva mai sottrarsi alle sfide. I suoi giochetti perversi includevano la divisione in due squadre: vinceva chi raggiungeva il premio per primo. Ovviamente, i vantaggi erano tutti per Pan: la squadra di Tara includeva solo lei e Trilli, quella del biondo lui e tutti i Bimbi Sperduti. Per non parlare dell'aiuto dell'Ombra o del fatto che il premio fosse Cameron.
Fatto che metteva abbastanza alle strette la ragazza. L'eterno bambino rispondeva ai lamenti di disapprovazione di lei asserendo: «I vantaggi dell'essere l'unico Re dell'Isola che non c'è implicano che io possa fare ciò che voglio.»
Frase che le ricordava ciò che il biondo ripeteva sempre da tre mesi a quella parte: «Non esistono Regine e Re su Neverland, non ci sono mai stati. Solo me.»
Le risultava una leggera incoerenza, ma anche parzialmente sensata.
«Comunque, non sono qui per punzecchiarti. Almeno, non oggi.» commentò con voce risoluta lui, nascondendone la sfumatura roca.
Erano rimasti ad osservarsi per un pò.
«Allora perché sei qui?»
«Per discutere. E perchè la mia parte chiede una tregua.»
La mora sghignazzò di un poco, osservando il biondo stringere la mascella. Erano quei brevi momenti a renderla confusa; attimi leggeri tra i due che venivano portati via dal vento.
«Tu o la tua parte?,» rise ancora, «Io comunque non ho nulla da discutere con te.»
«Penso che invece ti interesserà, almeno, in parte sarà così.»
«No, grazie.»
«Neanche se si parla di Cameron?»
«Colpo basso,» disse a denti stretti, «bastardo.»
Peter sorrise impercettibilmente, nonostante nominare Cameron aveva rabbuiato sia lui che lei, con la stessa intensità.
Su questa cosa, si erano trovati silenziosamente d'accordo.
La mora non capiva la ragione che spiegasse l'odio profondo per il suo amico da parte di Pan.
Anche se, effettivamente, per quanto conosceva quel demone sanguinario, odiava tutte le persone che risultavano un'ostacolo per lui.
E allora perché portarlo su Neverland, nonostante gli si leggesse nello sguardo la voglia repressa di infloggergli una morte dolorosa? Touchè. Ovviamente, per metterla alle strette.
Amico. Da quando etichettava Cameron in quel modo? Dal momento che era una persona in più da salvare, quella a cui era più legata e non solo sull'isola, e non aveva altri pensieri se non quello di salvare tutti.
«Cosa devi dirmi, Pan?»
«Non qui,» soffiò ad un palmo del suo naso, comprendo in un batter d'occhio di fronte alla Salvatrice, che sussultò, «tieniti.»
L'afferrò saldamente per i fianchi e si liberò in volo, mentre Tara, presa alla sprovvista, strinse le braccia intorno al collo del giovane immortale.

Queens and Kings || Peter Pan (OUAT)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora