Helene
Apro gli occhi.
Quello che vedo non è di sicuro quello che mi sarei aspettata di vedere.
Questa non è la mia stanza del college.
Ma è molto più piccola, la carta da parati è verde scuro, come il colore delle foglie invernali.
C'è una finestra da dove esce la fioca luce della luna, illuminando una gran parte della camera, sotto di essa una scrivania bianca con tanti libri e accanto un grande armadio. Infine un letto a una piazza e mezzo poggiato al centro di una parete.
È perfetto, ha le lenzuola bianche stirate e messe alla perfezione senza alcuna piega, è come se mancasse qualcuno, se stesse aspettando soltanto una persona che ci dormisse, si riposasse o qualcuno che scaldasse le sue lenzuola fredde e dritte, noiose, qualcuno che si addormentasse con il loro odore.
Davanti al cuscino ci sono tre peluche messi in ordine, tra cui un orsacchiotto marrone con un fiocco blu in testa, una piccola tigre e un mini Spiderman.
E adesso mi riviene in mente tutto.
Questa è la mia camera, quella di quando abitavo a Liverpool.
Ma perché sto qua?
Quella dove ho vissuto tutti i miei traumi, i miei problemi e i ricordi terribili del passato.
Quando abitavo a Liverpool andavo a scuola in una grande baracca vicino casa insieme ai miei fratelli.
Eravamo molti ad andarci, ma io mi ricordo che andavo sempre d'accordo solo con un bambino, lui era anche molto amico con mio fratello, ma io non avevo altri amici o amiche con cui farsi le trecce a vicenda, solo lui.
Io avevo 6 anni e lui 9 quando ci conoscemmo per la prima volta.
Nessuno voleva fare amicizia con me o questo bambino.
Tutti dicevano di me che ero strana, aggressiva, guardavo male tutti e non parlavo mai ma se lo facevo offendevo le persone.
Invece tutti dicevano di lui che era maleducato, cattivo, picchiava i bambini ma lui diceva che lo faceva solo per proteggersi, e faceva paura a tutti quando aveva i suoi attacchi d'ira.
A quel tempo io ancora non li avevo, ma mi ricordo che su 100 ragazzi di tutta la scuola io ero l'unica che riusciva a calmarlo.
A tranquillizzarlo, a non fargli pensare a niente, ma lui in quei momenti non voleva aiuto, non lo voleva mai da nessuno, ma poi si fidò di me e iniziò ad accettare il mio.
Non mi sono mai spiegata perché, ma quando tutti scappavano e i professori non facevano altro che niente io ero sempre pronta per lui ad aiutarlo.
Con il tempo abbiamo legato ancora di più e siamo diventati inseparabili.
Ci stavamo sempre accanto, io per i suoi attacchi di rabbia lui per i miei giorni in cui andavo a scuola con un livido o quando non riuscivo a smettere di piangere.
"Noi due contro tutti. Per sempre" mi aveva detto una volta.
Avevamo anche scoperto che abitavamo uno di fronte all'altro, il mio palazzo affacciava al suo.
Quando era notte ed eravamo a casa andavamo al balcone, prendevamo una torcia e comunicavamo con l'alfabeto morse.
L'avevamo imparato a memoria solo per parlare anche quando eravamo lontani.
Ci volevamo un bene dell'anima.
Due pezzi di puzzle incastrati alla perfezione.
Due metà perfettamente combacianti.
Due magneti che non riuscivano a staccarsi.
Insieme eravamo una rosa, il nostro legame aveva dei petali e talvolta anche delle spine,
ma qualunque cosa succedeva ci eravamo promessi di non separarci mai.
Di non far appassire quella rosa per nessuna ragione.
E io non sono mai riuscita a perdonarlo quando dopo anni che eravamo amici lui se ne andò.
Aveva infranto la nostra promessa.
Se ne era andato, da un giorno all'altro lui non c'era più.
Mi aveva lasciata sola, sola in quella casa, sola in quella scuola, sola in quella vita, e la peggiore che potesse farmi era lasciarmi sola con me stessa.
Era sparito, ogni giorno mi chiedevo dove era andato, se era partito, o se forse era colpa mia che avevo fatto qualcosa di male o se si fosse stancato di me.
Ogni notte sono stata a piangere, non riuscivo a crederci che lui mi aveva abbandonato.
Me lo aveva promesso, non ci separeremo mai.
Con il passare dei giorni cercavo di accettare la sua scelta, ma non ci riuscivo, non l'ho mai fatto.
Ho provato a scrivergli delle lettere, anche se non sapevo il suo indirizzo, magari un giorno glie le avrei date ma le parole non mi uscivano.
Non c'erano parole per descrivere quanto ci rimasi male, o quanto io gli volessi bene.
La cosa strana è che noi non ci siamo mai detti i nostri nomi, mai, era un segreto che avevamo deciso di non svelare.
Una cosa mi aveva detto il giorno prima di andarsene.
Che ci saremo detti i nostri nomi solamente quando ci rincontreremo.
E io la non avevo capito cosa intendeva.
Ma lui si.
Lui lo sapeva che doveva partire o qualunque cosa aveva fatto.
Così io ritornai alla mia vita di sempre.
Ritornai a scuola con una parte in meno di me.
Un pezzo mancante al puzzle.
Sentivo che non avevo più niente senza di lui, era cambiato tutto.
Invece del posto che ci aveva fatti conoscere, la scuola, rimase uguale, anche se per me era tutto diverso.
A scuola grondava acqua dal soffitto, c'erano ragnatele, la polvere, le crepe nei muri e i bambini continuavano a guardarmi dall'alto al basso.
E ancora mi domando lui ora che fine abbia fatto.
Io i miei fratelli e i miei "genitori" che si fa per dire eravamo molto poveri.
I soldi non bastavano, alcune volte non riuscivamo neanche ad arrivare a fine mese.
In più i nostri genitori ci odiavano, ci minacciavano di lasciarci per strada se gli facevamo notare una cosa che non ci andava bene, oppure anche quando commettevamo un piccolo errore, per esempio far cadere un bicchiere di vetro, ci punivano, ci picchiavano o non ci facevano mangiare per un giorno intero.
Era il vero e proprio inferno dentro quella casa e io non potevo uscirne.
Ero bloccata.
In un limbo infinito senza fine dove l'unica soluzione era quella di arrendersi, di abbandonare, di addormentarsi sperando che tutto finisca al più presto, ma quella fine non arrivava mai.
Non c'era tregua.
C'era solo rumore, chiasso, e allo stesso tempo silenzio, vuoto.
Io volevo solo una via di mezzo, di stare tranquilla, di non piangere o non avere un livido per almeno un maledetto giorno.
Ma o era uno o era un'altro.
O tutto bianco o tutto nero.
O gridare o il silenzio.
O piangere o non provare nessun tipo di emozione.
O mi sentivo troppo schiacciata, pesante, o mi sentivo vuota, insignificante.
O c'erano specchi rotti o specchi in cui il tuo riflesso era nascosto, impossibile da toccare o da vedere.
Mi concentro a guardare la luna fulgida dalla piccola finestra.
I miei piedi nudi escono in automatico dalla stanza percorrendo il pavimento gelido, che porta al corridoio stretto e lungo che ero solita fare.
Arrivo al salotto e me ne pento immediatamente.
C'è Violet, mia madre, è seduta sul divano e dalla poca luce nella stanza riesco comunque a vedere che è di spalle.
I suoi capelli ricci e voluminosi che ho ripreso dai lei sono raccolti in una cipolla disordinata.
Mi odio, perché assomiglio così tanto a lei.
I capelli lunghi e boccolosi, gli occhi verdi, come lo smeraldo, non sono grandi, ma abbastanza ipnotizzanti da poter perdersi dentro, stanchi, e sempre con un po' di occhiaie.
Mia madre è bellissima e anche a mio padre non si può non dire niente.
Ma come genitori, anzi come persone, erano terribili.
Non si sono mai sposati, hanno fatto i loro primi figli, i miei fratelli, quando mia mamma aveva 25 anni e mio padre 28.
Non ci mostravano mai affetto, ci trattavano male, erano sempre freddi e seri, non sapevano amarci, forse lo sapevano fare solo tra loro.
Mia madre da quando ero piccola soffriva di depressione, mio padre cercava di procurargli delle cure o farla mandare in qualche posto dove qualcuno la sistemasse, ma non bastavano mai i soldi.
In generale io e i miei fratelli non avevamo mai capito il perché della sua depressione, che cos'è che glie l'aveva fatta avere.
Avanzo di altri passi fino ad arrivare al divano.
Il cuore inizia ad accelerare, mia madre è ancora immobile e non muove neanche un muscolo.
Avanzo di un'altro passo, facendo il giro del divano.
La guardo con gli occhi spalancati. Inizio a tremare, a piangere, lo stomaco comincia a far male, il senso di vomito arriva fino alla gola.
È seduta, ma ha un'enorme chiazza rossa all'altezza dello stomaco, accanto a sé ha la stessa arma e gli stessi vestiti della notte del suo suicidio.
La sto rivivendo.
Il trauma più grande a cui io ho mai assistito.
Il momento esatto in cui mia madre si è suicidata. Il giorno del mio quindicesimo compleanno.
Non ne posso più di guardare questa scena.
Un loop infinito.Il suono martellante della sveglia mi fa aprire gli occhi e avere l'incazzatura già di prima mattina.
Sono molto frastornata sia da quello che è successo ieri sia per il sogno di stanotte.
Esattamente, ieri, con Noah, cosa stava accadendo?
Che intenzioni aveva?
Non riesco a capire, anche perché secondo me sotto sotto c'è qualcosa, visto che quella volta che abbiamo parlato al capetto Daisy e Grace mi guardavano stralunate.
Del resto mi alzo finalmente dal letto e mi preparo per affrontare un'altra giornata in questo college.
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UNTOUCHABLE - Intoccabile
Romance"Si dice che chi si ferma è perduto. Eppure io ho perso già prima di poter cominciare " 🪽🥀 Helene Lawrence una giovane studentessa che ha finito il liceo e che continua il suo percorso con la psicol...