I • 𝐷𝑜𝑛'𝑡 𝑡𝑎𝑙𝑘 𝑡𝑜 𝑠𝑡𝑟𝑎𝑛𝑔𝑒𝑟𝑠

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Il nodo alla gola che impediva di sciogliersi ogni tal volta che ingoiavo il sapore amaro che trattenevo sulla lingua, aumentava il mio sentirmi a disagio su quel letto dove avevo passato la prima notte in quella che sarebbe stata la mia nuova casa.

Le pareti bianche, il soffitto alto, immenso e i raggi di sole che si sdraiavano di fianco a me dandomi il buongiorno nella mia prima giornata dopo il tanto atteso viaggio, rendevano il tutto quasi accettabile.

Outer Banks. Il mio luogo, sono di nuovo qui.

Saranno passati ormai 10 anni da quando la me di 7 anni viveva all'interno di questa casa, eppure al giorno d'oggi a me pare essere sconosciuta.

I ricordi sbiaditi, il passato quasi cancellato e tornando qui, nulla come prima. Tutto mi parve essermi scivolato con una tale velocità dalle dita che, in questo momento, contemplando il soffito sperai in una risposta.

L'inizio di una nuova vita, o quasi, non era facile per nessuno, ma per me era da sempre una guerra. Non sapevo da dove iniziare, come comportarmi e chi essere. Era certo che Arabella di dieci anni fa non era la stessa Arabella di adesso, ma questo io lo sapevo, il problema era: Outer Banks lo sapeva?

Il viaggio mentale che ormai mi facevo da quando avevo messo piede qui mi impediva di essere attiva, e non poteva trascinarmi giù in questo modo, non così. Presi un respiro profondo così che riuscisse a togliermi ogni dubbio e a darmi la giusta forza per alzarmi. Scostai la tenda e osservai il sole scottare la sabbia dove tutti erano intenti nell'abbronzarsi o surfare, opzione al quanto suscettibile in me che mi diede la giusta enfasi di prepararmi.

Era solo il primo giorno nel mio posto, e per non azzardare a fare danni o cose troppo caotiche, mi limitai ad uscire con un costume azzurro accompagnato da un pantaloncino e la tavola da surf. Come da legge della famiglia Dallas "non c'è giorno da perdere tra le onde del mare" ripetei tra me e me sentendo nella mia mente la voce di mio padre che ogni anno ripeteva la stessa cantilena.

"Pulce?" Il frammento di ricordo nei confronti di mio padre svanì dal momento che, nel varcare il cancelletto del giardino della mia immensa villetta, sentì pronunciare quel nomignolo da una voce. Non una classica voce, ma la sua.

"Rafe?" Deglutì a fatica nel vederlo lì di fronte a me. Rafe Cameron, era lui. La mia cotta della me bambina, il mio vicino da sempre, il mio compagno di infanzia che insieme a me faceva esasperare i genitori. Il mio cuore per un piccolo istante aveva sicuramente smesso di battere dal momento che i miei occhi lo videro così diverso, così cresciuto, così bello.

"Tu sei qui? Insomma, voglio dire, sei tornata." La sua voce rauca e i passi lenti che faceva per dividere lo spazio tra di noi mi fecero morire non capendo se fosse per il nomignolo o per il fatto che si ricordasse di me.

"Si, ieri ser-" non finì in tempo di concludere che una ragazza alta dalla chioma bionda mi abbracciò in tutta fretta stringendomi a se.
Sarah. La riconoscevo dal profumo.

"Non ci credo, Bella, sei qui." Urlò interrompendo quella piccola conversazione che stava avvenendo tra me e il fratello, guardandomi con un sorriso a trentadue denti che veniva ricambiato da me.

Lei sapeva che sarei tornata, era forse l'unica che nonostante la distanza era rimasta tra i miei contatti. Osservai Rafe che ci guardava con un sorriso sul volto, tacendo per non interferire in quel momento di affetto tra me e la mia migliore amica.

"Si, sono tornata ieri sera, lo stavo appunto dicendo a Rafe." Lo indicai con la testa facendo notare alla bionda la presenza che aveva ingenuamente ignorato di suo fratello. Con quel gesto Rafe ebbe il coraggio di avvicinarsi a noi, pronto per dire qualcosa ma, di nuovo, fu interrotto da Sarah.

𝐓𝐇𝐄 𝐁𝐄𝐒𝐓 𝐌𝐈𝐒𝐓𝐀𝐊𝐄 j.m. Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora