So, here I am.

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La prima cosa che noto quando finalmente ricomincio a prendere conoscenza è la presenza di aria pesante e chiusa.
Resto con gli occhi chiusi, cercando di stabilizzare i sensi.
Sono su qualcosa di decisamente morbido, forse un letto, ma la mia mente non ne vuole ancora sapere di ricordare qualcosa.
Mi sento come scivolare ed ogni tanto sobbalzo talmente leggermente che ho paura di immaginare tutto.
Muovo e mi lecco le labbra, trovandole secche e con un sapore nauseante.

Finalmente mi decido ad aprire gli occhi, scoprendoli estremamente pesanti: lo sforzo mi fa venire un mal di testa piuttosto forte, ma stranamente familiare.
Vedo un soffitto abbastanza vicino, grigio e all'apparenza fatto di un materiale morbido.
Scendo con lo sguardo sulla parete, non scoprendola affatto una semplice parete: sulla fiancata ci sono delle vetrate coperte da pesanti tende bianche.
I rumori sono ovattati, ma da poco lontano provengono delle voci.
Chiudo di nuovo gli occhi, sopraffatta dalla confusione, e improvvisamente ricordo tutto: Margot, la caduta, il dolore, la nausea, quei ragazzi impertinenti che non sapevano che fare e tanta tanta confusione.
Ricordo di essere anche svenuta.

Ma dove sono ora? Cosa hanno fatto di me alla fine?
La risposta più consona sembrerebbe quella di avermi lasciata ad un agente.
Alzo la mano e mi sfioro la fronte, con una prudenza esasperante. Non sento dolore, ma tocco qualcosa che sembra una garza e sotto di essa qualcosa di leggermente bagnato e appiccicoso.

All'improvviso realizzo che sono in ospedale. Strano, ma vero.
Quando aprirò gli occhi e guarderò dove sono distesa scoprirò un letto bianco e delle noiose lenzuola che sanno di pulito.
Ora che ho trovato la prima soluzione alla mia instancabile confusione, posso concedermi di aprire gli occhi.
Li spalanco, ma la confusione torna di nuovo come un'onda sugli scogli, che invece di levigarsi diventano ogni momento più appuntiti.

Raddrizzo la schiena e mi rizzo sui gomiti, osservando dritto davanti a me: intravedo cuscini colorati e il bracciolo di un divano.
Mi alzo a sedere definitivamente, ignorando i piccoli giramenti di testa e mi guardo intorno: scopro di essere su un puff estremamente comodo e grande, diventato un letto improvvisato.
Scosto le tende al mio fianco e il mondo mi crolla di nuovo addosso: fuori le macchine sfrecciano sull'asfalto dell'autostrada e noi sfrecciamo con loro.
Sono in un cavolo di pullman.

Giro la testa paralizzata dallo shock e osservo la stanza piuttosto piccola, ma in ordine e pulita: c'è un divano enorme pieno di cuscini e un piccolo tavolo con qualche sedia.
Una figura di cui non mi ero minimamente accorta, è raggomitolata sul divano, appoggiata allo schienale, con le ginocchia avvicinate al petto. Sta usando il cellulare, le mani scivolano veloci sui tasti.
Alza lo sguardo e incontra i miei occhi confusi, agganciando il contatto per qualche secondo.
"Brandon!" Urla. "Si è svegliata."

Si vede che il mio cervello non ha molto assimilato i seguenti dati: uno, sono su un pullman, due Harry Styles è seduto accanto a me (come dimenticare il suo nome, ce l'ha stampato in rosa sulla maglietta), tre questo non è un fottuto sogno.
"Oh mio Dio." Dico solo, distendendomi di nuovo e coprendomi le mani con la faccia. "Oh mio Dio." Continuo a ripetermi, non sapendo cos'altro dire o fare.

"Le ho detto che sto bene." Ribatto di nuovo scocciata, allontanando con una mano il braccio allungato del dottore.
Lo so che dovrei essere più riconoscente: d'altronde siamo fermi in un autogrill e hanno fatto chiamare un altro medico apposta per me.
Perchè, come ho scoperto, sono in questo pullman da quasi un giorno intero: la notte precedente dopo avermi trascinata nel mezzo, mi hanno medicata e sistemata e hanno chiamato il primo medico, che ovviamente ha assicurato loro di non proferire parola sull'accaduto.
Chi non avrebbe ascoltato cinque giovani milionari e il loro manager?
Quindi siamo in viaggio verso la seconda tappa Britannica - parte del tour in cui non verrà usato il jet privato, ma esclusivamente il pullman per questioni di comodità-.
Ho dovuto firmare milioni di documenti per la sicurezza della loro privacy e ho dovuto assorbire decine di avvertimenti su pericoli vari, su scuse per l'accaduto, su assicurazioni e su piani per il futuro.
Su piani per il futuro si intende chiaramente come si sbarazzeranno di me.
Perchè, altrettanto chiaramente, so che lo faranno molto presto.

Il piano consiste nel lasciarmi una volta arrivati a Liverpool, pagarmi l'aereo per Londra - mi sembra giusto considerando che ho fatto tutto il viaggio per poi ritornare indietro - e fare finta che niente di tutto ciò sia accaduto.
Il problema sta nel fatto che arriveremo a Liverpool tra ben tre giorni.

Mentre il dottore discute con il manager, usando la sua voce roca e il suo accento chiaramente scozzese, mi lascio andare sulla poltroncina della stanza dove sono rinchiusa da quasi ventiquattro ore e porto alle labbra il mio caffè freddo.
Ho un blocco allo stomaco che non se ne vuole andare, forse dovuto al fatto che non mangio da un po'.
"Bene signorina." Si rivolge questa volta a me il dottore. "Abbiamo confermato l'inesistenza di qualsiasi tipo di trauma cranico."
Non pensavo avesse potuto essere tanto grave, nonostante il dolore.
"Tuttavia." Riprende. "Le consiglio vivamente di rimanere a riposo per due o tre giorni, considerando che ha avuto una leggera commozioni celebrale e che il suo organismo è ancora in subbuglio. Mangi poco per evitare nausea e cambi la medicazione sulla fronte almeno una volta al giorno, per due giorni." Conclude, sistemandosi gli occhiali sul naso, per poi stringere la mano a Brandon e a Louis, i due presenti nella stanza con me.
Io non dico una parola, intenta a mescolare con il cucchiaino la bevanda nelle mie mani.

Una persona si accascia sul divano a fianco a me, lo osservo: è il ragazzo che sembra più maturo dei cinque, nonostante abbia un viso amichevole.
Non ricordo il suo nome e questo fatto mi mette incredibilmente in imbarazzo considerando che lui sa benissimo il mio.
"Annabeth." Mi saluta con un sorriso.
"Come stai?" Mi chiede semplicemente.
"Intendo, come stai veramente?" Si corregge e questa sua sensibilità mi colpisce subito, incominciando a cambiare leggermente una delle tante sfumature di idee che ho su quei cinque ragazzi.

Gli sorrido timidamente, decisamente estranea alla situazione.
"Sinceramente?" Chiedo.
Lui annuisce, passandosi una mano sui capelli corti.
"Vorrei, vorrei seriamente chiamare a casa." Ammetto, riconoscendolo per la prima volta io stessa.
"Capisco." Mi risponde pensieroso.
"Beh non c'è problema." Mi dice poi.
Si alza, si dirige verso il tavolino e afferra un vecchio i-phone, per poi porgermelo.
"Puoi chiamare chi vuoi con questo, non c'è nessuno problema di rintracciamento e non è nessuno dei nostri cellulari personali." Mi spiega.

Lo afferro titubante, ringraziandolo, e compongo il numero di casa.
Solo ora mi metto a pensare di quanto sarà preoccupata mamma e di tutto il casino che mi porto alle spalle.
Mi giro verso il divano, ma Liam se n'è andato. Allora appoggio il cellulare all'orecchio e aspetto che gli squilli si interrompano e che una voce familiare risponda allarmata.

Autor's note:
Scusate per il capitolo veramente corto.
Ok, siamo quasi a 100 visualizzazioni! Posso dire di essere soddisfatta! Grazie a tutti coloro che lasciano un voto e soprattutto a chi commenta, aumentando la mia voglia di continuare la storia!
(Quella nella foto è proprio la nostra Annabeth Clarke)
Un bacio a tutti💘
//Me

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⏰ Ultimo aggiornamento: Jul 22, 2015 ⏰

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