Capitolo secondo

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Uscii dall'ascensore entrando in un grande atrio luminoso che si affacciava in parte sulla città, c'era un grande tappeto color tortora, divani bianchi e cuscini in fantasia sui toni del marrone, vasi argento con all'interno tulipani rossi, la reception era un lungo bancone bianco arricchito come i tavolini dell'atrio.

-Buongiorno signorina Cole- disse sorridente la ragazza.

Feci cenno con la testa e mi incamminai verso il mio ufficio passando per un lungo corridoio dritto, il rumore delle mie scarpe sul granito faceva girare tutti i miei dipendenti che mi salutavano educatamente. "Perché ogni mattina devono fare tutti così, odio queste attenzioni e questi leccapiedi". In effetti mi dava fastidio essere osservata da tutti con quegli sguardi misti tra curiosità, timore, invidia, odio. Arrivai rapidamente in ufficio togliendo i miei spessi occhiali da sole Chanel e indossando quelli da vista che più che capo facevano molto segretaria, mi guardai allo specchio vedendo una donna elegante e seria dai lunghi capelli biondi raccolti in maniera perfetta e ordinata in una coda di cavallo, in fondo mi piace questo aspetto di me, mi sento così potente e autoritaria, un boss da temere. Tornai alla scrivania, non feci in tempo a sedermi che la mia segretaria bussò alla porta.

-Scusi signorina Cole, il signor Drumon insiste per entrare.-

-Fallo accomodare Claire, grazie-

Jer entrò e fu molto composto, sa che sul lavoro non do confidenze.

-Signorina Cole, ha dimenticato la colazione in macchina-

-Grazie Jerome, vieni a prendermi stasera alle sei.-

-Certamente, signorina Cole...-

E se ne se andò. Mancavano pochi minuti al mio primo appuntamento della giornata e quindi trangugiai la mia colazione seduta sul divando mentre l'autunno di Vivaldi con le sue note tristi e rapide mi accompagnava dolcemente. Questo è uno dei miei pezzi preferiti, descrive la mia vita così frenetica e malinconica, la vita di una ragazza cresciuta via dai suoi affetti, lasciando ad appena sedici anni la tranquilla Cambridge per costruirsi una carriera in una grande città. Me ne andai poco dopo che mio padre fu ucciso in una sparatoria da dei ladruncoli, mi scosse così tanto quell'evento che decisi di scappare via. Mia madre mi capii e restò lì con la mia sorellina di quattordici anni a crescerla affrontando la perdita da sola. Mi mancano ogni giorno, soprattutto quella svampita di mia sorella. Gestiscono un modesto atelier di abiti da sposa, "dovrei andare a trovarle, ho bisogno di staccare".

Mi alzai col thermos del caffè il mano e mi avvicinai alla vetrata. Feci un lungo sorso e chiusi gli occhi. "Andrea se non fossero successe tutte queste cose non saresti mai diventata chi sei oggi". Il mio cervello ha ragione, ma una vita umile in una piccola cittadina in campagna sarebbe stata piacevole, ma detesto gli insetti e amo le scarpe firmate, è bello essere me in fondo!

Affrontai la giornata e i vari appuntamenti, pranzai nel lussuoso ristorante del grattacielo e le sei arrivarono rapide. Scesi alla'ingresso dello Shard ma di Jer nessuna traccia. Presi il mio IPhone e cercai di rintracciarlo ma niente, irraggiungibile. Iniziai a preoccuparmi, non era da lui, di solito si fa trovare qui sempre dieci minuti prima che io esca. "Credo che sia l'ora di prendere la metro, Andrea". Mi feci coraggio, un bel respiro profondo, occhiali da sole e mi incamminai verso la fermata più vicina. Dopo diversi minuti, apprezzamenti da cafoni e ragazzini, qualche fischio e schiamazzo arrivai illesa in stazione. Vidi da lontano una panchina. "Sollievo per i piedi, corri!". Mi avvicinai a passo svelto alla mia meta, "cavolo se fanno male queste scarpe". Prima di me un giovanotto sui ventisette, ventotto anni si sedette lasciando un posto libero accanto a sé. Con finta non curanza mi avvicinai, presi un fazzoletto dalla borsa e lo poggiai schifata su quel pezzo di metallo sporco e infetto. Mi sentii osservata, alzai lo sguardo e vidi un paio si occhi verdi fissi su di me, avevano una vaga aria divertita e curiosa allo stesso tempo. Con falsa indifferenza mi sedetti composta sul fazzoletto, sembravo una statua, una statua abbastanza ridicola. Mi girai e lui mi stava guardando. "Ma cosa cavolo vuole questo, i soliti maschi".

Mancavano otto minuti al prossimo treno, cercavo di spostarmi ma facevo dei movimenti impacciati e assurdi e quegli occhi verdi impertinenti mi fissavano divertita. Si girò dall'altra parte finalmente, lo guardai attentamente. Giacca blu di alta sartoria, camicia in lino con il colletto sbottonato, senza cravatta. Pantaloni blu di jeans leggermente aderenti, dei deliziosi mocassini e una ventiquattr'ore antracite firmata Prada. "Niente male la metro". Mentre lo fissavo con fare attento si girò di nuovo verso di me e io cercai in tutti i modi di non fargli capire che lo stavo osservando. Spostai lo sguardo più lontano e lo intravidi sorridere. "Perché non mi parla? Tutti gli uomini che incontro lo fanno! Magari è gay". Colsi l'occasione per continuare a studiarlo: "anche muscoloso il tizio!".

Accavallai le gambe e mi accorsi di una gomma, un'orribile gomma azzurra appoccicosa e sporca incollata alla suola delle mie Jimmy Choo.

-Merda!-

Mi resi conto dallo sguardo curioso di mister occhi verdi che lo avevo detto ad alta voce. Arrossii di colpo. "Andrea sei una deficiente!". Lui lo notò e iniziò a ridere. Cavolo se mi ha infastidita!

-Cosa c'è, mi trova divertente?- dissi piccata.

- Divertente è un eufemismo, signorina...?-

-Signorina non sono fatti suoi!- sbottai infastidita. Lui iniziò a ridere rumorosamente e ne fui quasi contagiata. Cercai di trattenermi ma mi scappò un sorriso spontaneo.

La voce dell'altoparlante e un rumore metallico mi riportarono alla realtà, vidi il treno arrivare.

-Ci vediamo domani signorina non sono fatti miei- mi disse divertito facendomi l'occhiolino e sparendo tra le persone che affollavano. "Cos'era, una specie di appuntamento?". Salii nella metropolitana stranita. Arrivai a casa dopo quasi mezz'ora. Aprì i la porta e trovai Jerome seduto in salotto a parlare divertito con Agathe.

-Dove cavolo eri finito, sono dovuta venire in metro fin qui!-

Mi guardò colpevole, feci qualche passo verso di lui con fare arrabbiato. Poi la mia attenzione venne catturata da una voce, non era Agathe.

-Andrea non è stata colpa sua-

Mi girai di scatto, non potevo credere ai miei occhi.

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