1.Un dolore insopportabile

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"Dobbiamo affidare la sua anima all'amore incondizionato di Dio, ed essere grati che il Signore lo abbia chiamato a sé ponendo fine alle sue sofferenze terrene...", la voce del prete diventava sempre più bassa mentre infuriata mi allontanavo da quella bara, uscendo dalla chiesa.
Ero incazzata. Infuriata. Distrutta. Non riuscivo più a sentire tutte le stronzate che stava dicendo Don Stefano.
Come si poteva essere grati al Signore per avermi portato via mio padre?
Come poteva lui sapere che l'anima di mio padre sarebbe stata affidata a Dio?
Non riuscivo a respirare dentro quella chiesa così lugubre e buia, così piena di dolore.
Non riuscivo a piangere davanti mia nonna, che aveva appena perso un figlio; davanti mia madre, che aveva perso il marito e il migliore amico; davanti mio fratello, che aveva perso il suo eroe.
Mio fratello, Andrea. Solo otto anni e già senza un padre. Dovevo essere forte per loro e non potevo farmi vedere piangere.
Tutto questo mi faceva essere incazzata con Dio, e di certo l'ultima cosa che potevo dirgli in quel momento era grazie, non credete?
Le lacrime iniziarono a salire a causa della rabbia, del senso di impotenza, del senso di vuoto, del senso di smarrimento e di confusione che si erano impossessati della mia mente.
Non volevo che mi vedessero piangere, così iniziai a correre mentre le lacrime scendevano senza controllo sul mio viso. Il dolore era insopportabile.
Senza rendermi conto di dove andassi, percorrevo le stradine di San Feliciano che conoscevo come casa mia, in effetti erano casa mia. Ero cresciuta lì e ogni piccolo angolo di quel paesino mi ricordava mio padre.

Erano le tre del pomeriggio del 10 aprile e per strada non c'era nessuno, solo me, con il mio vestito nero, le ballerine che mi facevano male ai piedi e il trucco colato sul volto; lo avevo messo per costringermi a non piangere, ma ancora una volta avevo ceduto. Odiavo la mia debolezza, il mio essere sempre sull'orlo delle lacrime, il mio timore che la gente capisse quanto fragile ero.
Continuavo a correre. Il dolore ai miei piedi era insignificante rispetto a ciò che provavo dentro, quasi non lo sentivo.

Quasi tutto il paese era al funerale di mio padre. A San Feliciano ci sono solo 581 abitanti e mio padre li conosceva quasi tutti: lui era medico alla casa di cura del paese, ma era troppo costoso per tutti i cittadini, così papà visitava gratuitamente i vecchietti e chi non poteva permettersi le visite mediche.
Tutti gli volevano bene e mi ha sempre insegnato ad aiutare gli altri per il semplice piacere di farlo, non per ottenere beni materiali in cambio.
Mi mancava.
Avrei voluto fare un salto e spiccare il volo per andare lontano da tutto e da tutti, ma forse nessun posto mi avrebbe portato lontano dal dolore che stavo provando.
Mio padre, in ogni momento della sua vita, mi aveva fatto sentire l'amore che provava per me e per mio fratello. Anche quando litigavamo perché io facevo i capricci, o per cose più serie, alla fine si scusava. E se ero io a scusarmi mi accoglieva subito tra le sue braccia.
Ci sono state delle volte in cui ci siamo delusi a vicenda, ma ci siamo sempre perdonati e, insieme, siamo andati avanti.

Sentivo di aver perso più di un padre, lui era un confidente. Anche mia madre lo è, ma in modo diverso.

Con i miei genitori ho sempre potuto parlare di tutto, ma mio padre riusciva sempre a dirmi le cose che volevo sentirmi dire.
In quel momento, mentre correvo per cercare di seminare il mio dolore, sapevo cosa sarebbe stata l'unica cosa in grado di aiutarmi: un suo abbraccio e le sue parole di conforto.
Mi tornarono in mente le parole che mi sussurrò in ospedale. Lui stava dormendo ed io, che ero accanto a lui, non riuscii più a trattenermi dal piangere nel vederlo in quello stato. Lui si svegliò e sorridendomi mi disse: "Non piangere paperina. Lo sai che neanche la morte mi impedirà mai di starti accanto", fece una pausa per respirare un po'.
"Quando tu e tuo fratello siete nati ho promesso che vi avrei sempre aiutato e che non vi avrei mai abbandonati. Non ho intenzione di infrangere questa promessa", io non rispondevo, mi limitavo ad ascoltare le sue parole e a piangere ancora di più, così mio padre continuò: "Ho bisogno di sapere che tu sai che non ti lascerò mai. Devo sapere che anche tu sei convinta delle mie parole", la sua era quasi una supplica. Mi chiedeva di assicurargli che sapevo che lui non se ne sarebbe andato, ma avrei detto una bugia.
Lui mi stava lasciando. Mi stava lasciando per sempre. Mai più avrei sentito la sua voce, mai più avrei visto il suo volto sorridermi. I miei figli non avrebbero mai conosciuto il nonno e tutti questi pensieri affollarono la mia mente, facendo aumentare le lacrime.
"Gioia?", mio padre cercò di richiamare la mia attenzione. Così mi costrinsi a guardarlo e lui continuò: "Gioia, tu sai che io non ti lascerò mai, vero?", vedevo il terrore nei suoi occhi. La cosa che lo spaventava più della morte era la paura di deluderci. Di deludere me, la mamma, Andrea, mia nonna. 
"Papà, ma come farò quando vorrò chiederti un consiglio? Quando avrò bisogno di un tuo abbraccio? Quando Andrea vorrà andare allo stadio a vedere una partita di calcio?".

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