2. Devo essere forte

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"Cazzo! Ma cosa hai fatto?". Appena mi vide Chiara si allarmò, preoccupata per le ginocchia sbucciate, gli occhi gonfi e il mascara sparso un po' su tutto il viso.
Non potevo dirle ciò che mi era capitato davvero e in fondo non le dicevo proprio tutto. Lei era la mia migliore amica dal liceo, ma non perché le raccontassi tutto, solo perché era l'amica con cui passavo la maggior parte del mio tempo. Le volevo davvero bene, ma non parlavo mai con nessuno dei miei veri problemi. Non volevo angosciare gli altri per delle cose che solo io potevo capire e sentire. Le parole di conforto mi erano servite davvero a poco durante la mia vita, soprattutto perché erano davvero poche le persone in grado di conoscere le parole che mi avrebbero realmente confortata. Una di quelle persone era mio padre.
"Sono caduta. Posso cambiarmi?", dissi semplicemente.
"Certo".
Aprì la porta di casa e si diresse verso il bagno per prendere l'acqua ossigenata. Io andai direttamente in camera sua e aprii l'armadio per prendere dei jeans e una maglietta.
"Aspetta prima di metterti i pantaloni", disse Chiara entrando nella stanza.
"Non ce n'è bisogno", sbuffai capendo le sue intenzioni quando posò acqua ossigenata, carta igienica e delle bende sul comodino vicino al letto.
"Non iniziare a fare i tuoi soliti capricci. Avanti, siediti sul letto", mi rimproverò lei. Poi si inginocchiò davanti a me iniziando a pulirmi le ferite e, dopo averle disinfettate per bene, mi fasciò le ginocchia con le garze.
"Grazie mamma", la presi in giro, ridendo un po'. Speravo non si rendesse conto di quanto fosse finta quella risatina.
"Prego, tesoro di mammina", stette allo scherzo e mi fece la linguaccia.
Era così, io non dovevo far vedere cosa in realtà avevo dentro, altrimenti anche lei si sarebbe rattristata e questo, di certo, non mi avrebbe fatta star meglio.
Mi diressi scalza in bagno e mi lavai per bene il viso togliendo ogni traccia di trucco.
"Posso cambiarmi anche le scarpe per favore?",chiesi con il broncio, sedendomi nuovamente sul letto. "Guarda i miei piedi", dissi poi alzando le gambe davanti al suo naso.
"Levameli dal viso", disse mentre, ridendo, si scansava e usciva dalla stanza per andarmi a prendere un paio di scarpe da ginnastica. Erano quelle che più amavo.
"Ecco tieni", me le porse ed io le infilai.
"Bene, facendo un calcolo: la maglietta, i jeans, i calzini e le scarpe. Fanno 105 euro e 39 centesimi", disse lei ridendo.
"Ma è soltanto un prestito", ribattei offesa.
"Infatti", disse lei continuando a ridacchiare: "Questo è il prezzo per affittare i miei vestiti per un pomeriggio intero", continuò a scherzare.
Chissà come doveva essere bella la sensazione di esser certi di incontrare il proprio padre la sera a cena, o la mattina a colazione. Probabilmente lei neanche se ne rendeva conto. In fondo quando le persone che amiamo sono in vita non ci stupiamo di averle vicine.
Scacciai velocemente quei pensieri e dissi: "Io ho lo sconto 'migliore amica', ovvero: prendo tutto quello che voglio, gratis", dissi facendole la linguaccia.
Infilai il cellulare nella tasca dei jeans e lasciai la borsetta sul letto di Chiara, tanto era sua, me l'aveva solo prestata.
"Andiamo", dissi subito dopo precipitandomi fuori dalla stanza. Non volevo continuare a scherzare e far finta di ridere.

Il cimitero non si trovava molto lontano da casa sua e durante il tragitto vedemmo le macchine che seguivano il carro funebre.
"Come stai?", mi chiese Chiara triste.
Che domanda del cazzo. Come potevo stare? Preferivo non ricevere quel tipo di domande. Non mi piaceva mentire dicendo di star bene, né tantomeno dire la verità e ammettere di essere distrutta.
La guardai un po' e infine mi strinsi nelle spalle "Di merda", risposi sinceramente.
Lei si fermò e mi abbracciò forte sussurrando al mio orecchio "Vedrai che con il tempo andrà meglio".
"Già", ricambiai il suo abbraccio e feci finta di crederle. Come sarebbe potuta andar meglio quando l'illusione che fosse tutto un incubo sarebbe scomparsa? Quando ogni giorno mi sarei svegliata non trovando mio padre e accorgendomi che no, la sua morte non era solo un incubo, come avrei potuto sentirmi meglio?

Arrivati al cimitero c'erano tutti i miei parenti: mia zia, la sorella di mio padre; gli zii da parte di mamma; i miei cugini; mia nonna; mia madre con Andrea; anche la sorella di mia nonna, la mia prozia Elide.
Superai il carro funebre posizionandomi vicino mia madre. Era di fronte a due operai che, con una pala ciascuno, stavano scavando una buca nel terreno.
"Oh tesoro!", singhiozzò mia madre appena mi vide, avvolgendo le sue braccia intorno al mio collo. Io la abbracciai forte e strinsi i denti più che potevo per impedirmi di piangere. 
Vidi Andrea che vicino la nonna ci osservava e allungando un braccio verso di lui lo invitai ad unirsi al nostro abbraccio. Corse verso di noi, come se non aspettasse altro e iniziò a piangere anche lui. Io non potevo. Io ero la loro roccia e non potevo sgretolarmi quando loro avevano bisogno di appoggiarsi su di me. 
Una volta pronta la buca vi calarono la bara e mia madre lasciò cadere su di essa una dalia, come simbolo della riconoscenza e della gratitudine verso mio padre; una gardenia e un garofano bianco, come simbolo della fedeltà e del senso di appartenenza che avrebbe sempre mantenuto verso mio padre; ed infine una viola del pensiero, in ricordo di mio padre.
Io lasciai una semplice margherita. Sapevo che era simbolo di affetto, fedeltà e fiducia, e la sua semplicità mi rappresentava in tutto. Ero uguale a milioni di ragazze, come quella margherita era uguale a milioni di margherite. Non si sarebbe distinta tra le altre, come me: nessuno mi avrebbe ritenuta speciale, o più importante di altre, ma sapevo che per mio padre quella margherita sarebbe stata la più bella, la più preziosa e la più importante, come lo ero stata io per lui.
Mio fratello aveva scelto un girasole, le sue parole furono "Il girasole sembra un sole, perché è giallo, arancione e sta sempre girato verso il sole. Mi piace. Mi dà felicità e voglio che anche papà è sempre felice". Non dimenticherò mai il suo sorriso nel pronunciare quelle parole: era un sorriso così spontaneo, così innocente. Andrea non si rendeva conto di cosa significasse davvero morire, e forse nessuno di noi se ne rende conto fino in fondo, ma per lui non era un addio per sempre. In qualche modo era convinto che papà sarebbe tornato e il pensiero che la realtà lo avrebbe deluso mi faceva stringere il cuore in un pugno piccolissimo.
Avrei voluto proteggerlo da tutto il male e da tutto il dolore, ma non potevo.
Potevo solo accettare che non avremmo più avuto un padre, ma era davvero difficile.
Mia zia Bea, la sorella di mio papà, lasciò una foglia di albero di fico. Sembrò strano a tutti i presenti, ma a lei non importava; per lei una foglia di fico aveva un significato importante e non le interessava di come gli altri avrebbero potuto giudicare la sua scelta.
Ho sempre ammirato mia zia: è una donna forte, indipendente, sicura di sé e solare. È anche testarda, ma non l'ho mai considerato un difetto.
Quando erano piccoli lei e mio papà andavano sempre a giocare sotto un albero di fichi nel giardino del loro vicino e, quando era periodo, ne raccoglievano i frutti arrampicandosi sul tronco, divertendosi molto. Mi raccontò che quelli erano i momenti più felici per lei, perché erano le uniche occasioni in cui diventavano complici e si sentivano più uniti che mai. Sapevano che nessuno dei due avrebbe detto ai miei nonni che avevano preso quei fichi dall'albero del signor Grossi, rubandoli. In quei momenti erano legati più che mai, perché avevano un segreto tra fratelli. un segreto da custodire, un segreto che era solo loro, e prendevano questa cosa molto seriamente.
Per lei erano importanti quei ricordi e fece in modo che anche mio padre portasse per sempre con sé quei momenti.
Una volta ricoperta la bara, gli operai iniziarono a ricoprire l'area di sepoltura con una lapide di marmo.
Non volevo più stare lì.
"Andiamo a casa?", chiesi a mia madre.
"Ma non hanno ancora finito", disse lei quasi pregandomi di restare.
"Torneremo domani", le promisi avvolgendola con il braccio e trascinandola via delicatamente. Lei non si oppose. Presi mio fratello per mano e, una volta salutati tutti i parenti, li condussi all'uscita del cimitero.
"Salite", dissi aprendo la macchina.
Mia madre aprì la portiera del guidatore ma la bloccai: "Guido io", le sorrisi incoraggiante. Lei non rispose e lasciò cadere le chiavi nella mia mano.

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