Capitolo 1

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Il portone d'acciaio sbatte pesantemente alle mie spalle mentre mi lancio di corsa verso la fermata del bus, schiacciandomi il cappuccio della felpa sui capelli. Piove da tre giorni e ancora non mi sono deciso a comprare un maledetto ombrello. 

Il vento freddo mi sferza la faccia ed il marciapiede è così scivoloso che penso che potrei ritrovarmi con una gamba rotta da un momento all'altro.                 

Come se non bastasse, nonostante la corsa, vedo il mio unico mezzo di trasporto allontanarsi schizzando acqua da una pozzanghera. 

"Merd" impreco tra i denti, appoggiandomi ad un palo per riprendere fiato. 

Lancio un'occhiata in giro alla ricerca di un orologio e strizzo gli occhi per arrivare a decifrare i numeri che lampeggiano in rosso sull'insegna di una farmacia. Le 19:37. L'orario della cena è dalle otto e mezza alle dieci, ma sarei dovuto arrivare prima per aiutare a preparare tutto. 

"Merd" ripeto, imboccando Rue de Rennes a passo di marcia. 

Mi sono sempre chiesto come fosse vivere in una grande città. Essendo cresciuto in una piccola contea del South Yorkshire, ero stato sempre affascinato dalla vastità di questo tipo di metropoli dove tutto è luci, chaos e giganteschi cartelloni pubblicitari. 

Da piccolo immaginavo dimensioni quadruplicate per gli edifici e parchi impossibili da abbracciare con lo sguardo, strade infinite animate dal moto incessante di persone tutte diverse e singolari, di notte e di giorno. E poi musei, monumenti, centri commerciali immensi. Un cuore pulsante di smog e vita. 

C'era una sola cosa che non avevo mai preso in considerazione: il tempo. Gestire il tempo non è mai stato il mio forte e, dato che per attraversare una città immensa come Parigi ci vogliono ore, la costante della mia vita è una sola: il ritardo. 

Se si esclude l'alcol. 

Schivo una pozzanghera e giro su Rue Clovis. Mi ci vorranno altri tre kilometri per arrivare al convento di Saint Michael e il temporale non accenna a smettere. Mi stringo la felpa addosso e infilo gli auricolari nelle orecchie. 

Mi è sempre piaciuto camminare sotto la pioggia, respirare l'aria pungente e sfidare l'acqua che mi si rovescia sulla schiena e sentire la musica rimbombarmi nella testa. Mi fa sentire come se fossi l'unico rimasto al mondo, come se fossi talmente forte da vincere anche gli elementi. È una delle poche cose che mi fa sentire vivo. 

Se si esclude l'alcol. 

Ma è questo il bello delle camminate sotto la pioggia battente: non devo per forza essere sbronzo marcio per sentire quel brivido nelle ossa. 

I miei piedi prendono subito il ritmo mentre un arcobaleno di ombrelli colorati mi si apre davanti. L'aria fredda mi punge le narici ed i polmoni ad ogni respiro e mi sto bagnando più di quanto sia umanamente possibile ma non ci faccio molto caso, anzi non faccio molto caso a nulla in particolare. 

Questi sono i miei momenti preferiti: quando riesco ad estraniarmi completamente dal mondo. È come se fossi dentro una bolla, oppure circondato da ovatta, dentro la morbida consistenza di una nuvola. E la vita mi scorre davanti agli occhi distante, quasi stessi guardando un noioso film in bianco e nero. 

Ogni volta che raggiungo questo livello di incoscienza sento uno strano calore irradiarsi nel mio corpo e niente mi importa più. In questi momenti sono felice. O forse credo solo di esserlo, ma se anche così fosse non mi importerebbe. 

Boulevard of walking disasters.Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora