Prólogo

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Il viaggio ci aveva letteralmente stravolti.  Le ore su quell'aereo parevano non finire mai e nonostante in aereo avessi dormito, mi ritrovavo più stanca di prima. Sapete quelle giornate in cui sembra andare tutto storto? Quando ore prima avete perso l'aereo e di conseguenza avete aspettato ore prima del successivo, quando il vostro telefono decide di abbandonarvi nel momento meno opportuno o quando volete riposare ma c'è il vostro vicino che continua a masticare rumorosamente un chewing-gum? Mi sentivo esattamente così.

Mio fratello era sempre stato molto premuroso con me, nonostante fosse più piccolo di due anni. Avevamo un legame fortissimo. Non dico che non avessimo mai litigato perché negli anni passati sembravamo come cane e gatto, ma da poco più di due anni, da quando era successo quello, in me e in mio fratello era cambiato qualcosa. Da allora ne avevamo combinate di tutti i colori, uscivamo sempre insieme e ci facevamo da spalla l'un l'altro.

Come quella volta in cui avevamo forato le due ruote posteriori della macchina della Martìnez perché aveva dato un brutto voto a Juan. Nel momento in cui credevamo di avergliela fatta, aveva cominciato a suonare l'allarme della macchina e io e lui ci eravamo lanciati in una corsa a perdi fiato, mano nella mano, finché tutte le luci del palazzo non erano diventante lucciole in lontananza.

Misi una mano sulla nuca e ruotai il collo, mi doleva. «Estoy cansado, Juan.» Ed era vero, ero stanchissima.

Per perdere tempo cominciai a contare le valige, una volta arrivata alla trentaquattresima vidi le nostre e le indicai: «Aquí estás!»

Juan prese i bagagli e i muscoli sotto la sua maglia a maniche corte guizzarono. Mio fratello non era mai stato così in forma come in quell'anno. I capelli scuri erano perfettamente ricci sopra e rasati ai lati, i suoi occhi verdi, grandi e ben delineati, lucidi per la stanchezza, erano il mio rifugio. Per non parlare poi del suo sorriso perfetto, i denti bianchi risaltavano ancor più con la pelle naturalmente olivastra. Quando si accorse che lo stavo fissando, mi regalò una linguaccia per poi offrirmi il braccio da gentiluomo.

Uscimmo dall'aeroporto e una folata di vento ci investì, respirammo quell'aria fresca e ci guardammo sorridendo. In Argentina faceva sempre molto caldo, erano rare le brezze così fresche a giugno.

«Juan! Cecilia!» sentimmo gridare e ci voltammo verso la ragazza che ci stava venendo incontro a braccia spalancate. «Mi siete mancati così tanto.»

Mi staccai da Juan per correre incontro alla mia cuginetta preferita e stringerla a me. «Anche tu mi sei mancata, Cri!»

Juan abbracciò la testa di Cristina e le strofinò le nocche sui capelli, ridendo.

«Ehi, da dove proviene tutto questo italiano?» si stupì Cristina, allacciando un braccio attorno alla vita di Juan. Era poco più bassa di me e di lui, doveva sfiorare un metro e settanta.

«Perché questo anno ho seguito un corso aggiuntivo di italiano, mi sono preparata!» esclamai, provocando in loro una risata. Misi il broncio.

«Mi ha fatto una testa così.» borbottò Juan nell'orecchio di Cristina abbastanza forte in modo che potessi sentirlo anche io.

Mio fratello non aveva mai fatto fatica ad ambientarsi nei posti nuovi in cui andavamo, lui era come un camaleonte. Nel giro di una settimana, l'anno scorso, si era ambientato perfettamente e aveva appreso un italiano migliore di alcuni di qui. Più che altro si trattava di sopravvivenza, perché altrimenti non avrebbe potuto rimorchiare le bellissime ragazze italiane.

Lo minacciai di stare zitto in spagnolo ma lui sembrò non accorgersene nemmeno e riprese a parlare con Cristina, chiedendole dove fosse la macchina.

Cristina prese le borse e Juan le altre valige e si avviarono. «Andiamo!»

Incrociai le braccia e rimasi lì, ma loro non si voltarono. Battei la mia Adidas nera e bianca a terra e sorrisi, mi era mancata l'Italia.

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