La mano di Gabriel sfiora la mia mentre le sue labbra premono contro il mio orecchio soffiando parole confuse, o almeno cosi arrivano a me, confuse.
Non sento nulla, il cuore batte troppo forte, così forte da coprire ogni altro suono e le lacrime bruciano non lasciando spazio a nessun altra sensazione.
In un'altra occasione avrei avuto la forza necessaria di intrappolare le sue dita e stringerle cercando di fonderle con le mie, ma non oggi.
Le labbra di mia madre invece, si incurvano in un sorriso soddisfatto quando il parrocco ci invita a porgere l'ultimo saluto prima che venga chiuso, per sempre, in una scatola di legno troppo scomoda. Ed è proprio il quel momento che vorrei urlare, vorrei spaccare quel sorriso inopportuno, vorrei che ci fosse lei al suo posto.
Vorrei, si vorrei.
Ma rimango in silenzio, lascio che il cuore continui a martellarmi nel petto e fisso il legno scuro mentre la bara viene coperta di terriccio e fiori colorati. Fiori colorati che probabilmente lui avrebbe ritenuto "troppo".
Fiori colorati che quasi sicuramente, mio padre, non avrebbe apprezzato.
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'Mio padre è morto'
Ci ho messo dieci minuti a trovare la forza di premere invio, e ora, dopo altri venti, continuo a fissare lo schermo del mio smartphone sperando che quella lucina da rossa diventi verde e che lui, si connetta.
Ho conosciuto ventuno su una chat, uno scambio di battute infelici e la voglia di sentirlo il giorno dopo, ed eccomi due anni dopo a mangiare caramelle gommose il giorno del funerale di mio padre aspettando quella dannata luce verde.
Solita chat, solita persona, due anni dopo.
'Ehi, vuoi parlarne?' eccola finalmente, la luce.
'Condoglianze' aggiunge lui e io arriccio il naso a quella parola mettendomi per un attimo nei suoi panni ed immaginandolo premere quei tasti lentamente, con cautela, indeciso se inviare o meno quelle dodici lettere che in tanti evitano.
Io per esempio le evito, sempre.
Ma oggi no, non ho potuto. Ho dovuto sopportarle circa una cinquantina di volte ed ogni volta si schiantavano contro il mio viso e contro il mio sorriso di circostanza lasciando che la voragine già presente nel petto diventasse più profonda.
Anzi, cinquantuno.
'Come ti chiami oggi?' Cambio argomento e lui non ribatte.
'Mi chiamo John e ho tredici anni' risponde a quello stupido gioco prontamente e io sorrido, un sorriso esausto ma almeno questa volta, sincero.
' Ciao John, io sono Carola e ho quarantadue anni'.
Il sorriso rimane a far da accessorio predominante sul mio viso per tutto il resto della conversazione e ridacchio nel buio della mia stanza quando John mi confessa di chiamarsi Giovanni ma che presentarsi "all'americana" lo fa sentire più importante, più trendy.
'Credi che ci sia qualcosa dopo?' premo invio titubante fissando lo schermo in attesa di una sua risposta.
'Mi piace pensare che ci sia', sorrido impercettibilmente e mi lascio sprofondare ancor di più sullo schienale della poltrona che cigola sotto la pressione del peso del mio corpo o probabilmente sotto il peso della mia anima, oggi, più pesante del solito.
'Ci sentiamo domani John'
'Domani John non sarà qui, lo sai'
'L'importante è che ci sia tu, lo sai' invio e passo da online ad offline in un secondo senza dargli il tempo di rispondere.
Quella notte sogno mio padre, i suoi ultimi giorni e il sorriso che aveva poco prima di lasciarmi di nuovo.
Sogno quel brutto male che si è intromesso nella mia piccola felicità distruggendola, di nuovo.
Sogno l'ipocrisia della gente e qualcuno che mi stringe. Sogno, o forse no, un profumo famigliare, un odore di tabacco freddo che mi solletica le narici costringendomi ad aprire gli occhi.
Scorgo il petto di Gabriel, passo la punta delle dita sull' inchiostro nero e inspiro il suo profumo poggiando il naso sul suo petto caldo.
« Che ci fai qui? » sussurro e dopo poco, non ricevendo risposta, mi concentro sul suo respiro e rimango immobile accorgendomi di quanto profondo sia.
Sorrido pronta a tornare a sognare, mi stringo a Gabriel e lascio che il forte odore di tabacco mi porti altrove.