Sono due giorni che non vedo Gabriel, è impegnato con il suo lavoro. O almeno questo mi ha detto ieri sera. Solitamente è lui ad aprire le finestre della camera di mio padre. O meglio, di quella che è stata la camera di mio padre. Ieri sono rimasta ad accarezzare la maniglia cercando la forza di entrare, ma niente. E oggi, sono di nuovo qui, a provarci. Respiro, appesantisco il tocco e spingo il legno scuro che si scosta rivelandomi i mobili chiari e i vinili dalle copertine colorate. Faccio un passo e nonostante il suo profumo sia ormai scomparso, lo cerco. So che farà più male che bene, ma lo cerco. Masochista. Il suo maglione giallo è buttato sul letto e lo afferro. Il profumo è ancora lì. L'odore di polvere e di chiuso lo sovrastano ma chiudendo gli occhi, riesco a sentirlo. Gli occhi rubano ogni minimo dettaglio di quella camera. I graffi sui mobili, i libri sparsi e i titoli dei suoi album. La sua ventiquattr'ore è ancora all'angolo della scrivania. Un passo e le sono abbastanza vicina da notare la pelle consumata della maniglia e i moschettoni aperti che mi chiamano. Respiro, siedo sul pavimento freddo e mi copro le ginocchia nude con quel maglione giallo, con quel profumo famigliare. Un paio di quaderni e fogli disordinati. Il suo computer e penne nere. La calligrafia ordinata di mia madre mi costringere a far mia ogni parola regalata a quel foglio a righe chiare. 'Mia madre dice che non mi è permesso perdere la testa per un soldato. Mia madre dice che devo allontanarti prima che sia troppo tardi, prima che possa innamorarmi di te. Mia madre dice tante cose ma io te ne dirò solo una; è già troppo tardi.' Gli occhi bruciano e il cuore batte così forte da far male. Le parole impresse su quel foglio mi fanno sorridere. Il ti amo alla fine del foglio mi lascia un amaro in bocca che neanche io so spiegare. Ripiego il foglio e lo rimetto esattamente dove l'ho trovato, con cautela. Le mani continuano tremanti a sfiorare fogli ingialliti e si fermano solo quando trovano una vecchia polaroid dai colori spenti. Il viso sorridente della donna in foto non sembra neppure quello di mia madre. I suoi occhi accesi e pieni d'amore sono rivolti verso lo sguardo attento di mio padre che l'abbraccia saldamente da dietro. Non riesco a non sorridere infilando quei sorrisi nella tasca del golfino giallo profumato che mi accarezza ancora le ginocchia e che, sicuramente, porterò con me.
L'odore del caffè alleggia in cucina. Continuo a fissare lo schermo nero del telefono sperando, forse, che si illumini. Avrei bisogno di perdermi in una conversazione con ventuno. Un bisogno malsano del quale devo imparare a fare a meno, probabilmente. La moka fischia e finalmente il mio sguardo si sposta. Smette di torturarsi inutilmente e il mio corpo lo segue. Spengo il gas e lascio che l'aroma calda del caffè mi avvolga. Finalmente succede. Lo schermo si illumina e trattengo il respiro. 'Mi stai evitando?' Accarezzo lo schermo e mi lascio scivolare, un po delusa, sulla pelle bianca del divano che si lamenta. 'No, certo che no', dovrei lasciar perdere la mia stupida fissazione per ventuno e concentrarmi su Andrea. Sì, dovrei. 'Ti va di aprirmi la porta?' Rimango per un attimo sospesa, rileggo quelle parole prima di riuscire a dare un senso a quella frase. Poi, sento bussare. Un paio di colpi decisi che mi fanno sobbalzare. La prima cosa che noto una volta aperta la porta è la busta bianca che tiene stretta tra le dita, il mio sguardo sale e passa dal suo sorriso costante è perfetto per poi trovare i suoi occhi scuri. «Posso?» io sussurro un sì e lui mi passa accanto lasciandomi un bacio sulla guancia che accarezzo rapida, senza farmi notare. «Ti ho portato una brioche» posa il sacchetto sul tavolo e picchietta l'indice sul legno laccato di bianco. «Ti ho mandato un paio di messaggi ieri sera» il suo tono è calmo mentre si avvicina al divano affondandovi le mani prima di sedersi con cautela. «Scusa, ieri non è stata una bella giornata» mi giustifico e catturo il suo sguardo che non ha mai lasciato la mia figura. «Vuoi parlarne?» scuoto il capo, imprigiono il labbro inferiore tra i denti, lo torturo per qualche secondo per poi lasciarlo andare. «Ti va di uscire stasera?» «Niente sushi?» «Niente sushi!» La sua risata riempie la stanza e freno l'impulso di toccarlo. Tengo la mano prigioniera sotto l'altra non negandomi il piacere il guardarlo. Infondo la delusione non è così tanta.
«Credo di aver mangiato troppo» quel sussurro mi solletica l'orecchio destro assieme alle sue labbra che mi sfiorano. Fremo sotto a quel tocco sistemandomi meglio sulle sue gambe e allontanandomi così, da lui, pur non volendo. L'altalena continua ad ondeggiare grazie alle gambe di Andrea che si muovono piano spostando i sassolini bianchi ai nostri piedi. «Io mangerei un altro pezzo di torta al cioccolato» ammetto passando le unghie sul suo braccio che mi cinge la vita. «Venivo spesso qui, da bambina» continuo piano delineando i contorni del tatuaggio che si nasconde tra le dita di lui che sospira pesantemente smettendo di dondolare. Sento il suo corpo irrigidirsi quando poggia i piedi a terra, completamente. «Cass?» Faccio peso sulla gamba destra e appoggiandomi alla sua spalla mi volto quel che basta per poter incontrare i suoi occhi che stranamente tiene ancorati al suolo. «Tu mi piaci davvero» il mio battito cardiaco aumenta notevolmente quando i suoi occhi abbandonano quei piccoli sassi bianchi posandosi sui miei «Credo tu l'abbia capito» aggiunge e io, annuisco, stupidamente. Scuoto il capo subito dopo come a voler cancellare il movimento precedente e lui sorride avvicinandosi quel tanto che basta perché possa sentire il suo respiro solleticarmi il viso. «So che probabilmente per te, non è lo stesso ma volevo che tu lo sapessi» sussurra quell'ultima frase come se fosse un segreto e per un attimo credo che lui possa sentire il mio cuore battere all'impazzata per vederlo, in seguito, uscire dal petto. Non sono mai stata brava con le parole. Ogni volta che apro bocca per esprimere un concetto va a finire che comincio a confondermi e mettere insieme frasi senza senso confondendo così, il mio interlocutore. Per questo sono passata ai fatti. Poso le dita sotto al mento di Andrea obbligandolo ad abbandonare il suolo. Incontro i suoi occhi ed in un attimo sfioro le sue labbra con il pollice. Il suo respiro si appesantisce ed il mio lo imita. Poi in un attimo le sue labbra sono sulle mie. Rubo il suo sapore e e sciolgo quel contatto non lasciando però, il suo sguardo. «Anche tu mi piaci» soffio quelle parole sulle labbra che fremono ancora e un attimo dopo il suo sapore torna a far compagnia alle mie papille gustative. La presa si fa più salda e le mie dita scivolano sul suo petto che vibra. Inspiro il suo profumo e mi abbandono al buio di quel bacio. L'altalena riprende a dondolare, le mie mani cercano la sua pelle calda e il mio respiro torna regolare.
'Sono due ore che fisso il telefono in attesa di un tuo messaggio. L'ho persino minacciato come un idiota, ma non è servito a nulla. Ovviamente. Così ho deciso di fare il primo passo e scriverti perché odio starti lontano. Odio la persona che divento dopo due giorni senza di te. Mi manchi'. Sono le quattro quando i miei occhi, ancora schiavi del sonno, incontrano le parole di ventuno. Una doccia fredda che fa male. Un mi manchi che brucia il cuore ma che, aspettavo da tanto. Le mie dita incerte premono con forza su quelle otto lettere formando la stessa frase e sostano sospese sul pulsante invio per un tempo che sembra infinito. E forse lo è davvero. Il ricordo di Andrea mi obbliga ad allontanare quel dito traditore. Cancello piano vocali e consonanti e fisso la luce verde che lampeggia speranzosa. 'So che ci sei' insiste e il lamento che emette il mio cuore mi costringe a chiudere gli occhi. Chiudo gli occhi cercando di ignorare quel suono, quel dolore e quella voglia di parlare con lui. Forse funziona, perché quando riapro gli occhi... è già mattina.
• Chiedo scusa per il ritardo e per il capitolo penoso. E vi ringrazio per ogni stellina, ogni commento, ogni visualizzazione silenziosa. Grazie, davvero «3