Capitolo Quarto

119 11 8
                                    

Lasciai correre per un po' la storia del preside e ancora di più quella della famosa W, per quanto intrigante fosse, concentrandomi esclusivamente sulla lezione della signora Sullivan, una cinquantenne arzilla che c'insegnava matematica. Una massa di capelli rossi e ricci le incorniciava il volto caratterizzato da due occhi verdissimi e da una bocca carnosa evidenziata da un rossetto rosso. Ma, tra tutto quello che avresti potuto notare, ciò che più saltava agli occhi erano quegli occhiali enormi, con la montatura nera, che si ostinava a indossare; le lenti erano così grandi da sembrare fondi di bottiglia. Mi chiedevo sempre in quali assurdi negozi i professori rifornissero il proprio guardaroba.
Purtroppo la signora Sullivan non nutriva grande simpatia nei confronti di Mary, ma dopotutto la cosa era reciproca. Alzai lo sguardo dai miei appunti incrociando quello della mia amica che mi sorrideva, la lezione era davvero pesante e il rossetto della signora Sullivan, seguito a ruota dagli occhiali, non aiutava, mi distraeva ancora di più-anche perché non ero mai stata tanto portata per la matematica- e Mary sembrava divertita nel vedermi con lo sguardo perso nel vuoto e fisso sulle sue labbra.
Fortunatamente si assentò per un po' e la sensazione fu la stessa di quando potevo riprendere a fare ciò che preferivo, o a navigare su internet, dopo che mia madre era appena uscita dalla mia stanza e aveva smesso di tenere gli occhi puntati sullo schermo.
Abbandonai la fronte contro il banco, sospirando.
«Se non finisce qui, rischio di morire...» disse scherzosamente, sistemandosi una ciocca di capelli e punzecchiandomi con la matita.
«Non dirlo a me...» sospirai lasciando scivolare la guancia sul banco, godendomi quella sensazione di fresco.
«Non sarai ancora preoccupata per la storia del preside, vero?» mi sussurrò avvicinandosi sempre di più, come per non farsi sentire da altri, anzi, proprio per non farsi sentire da orecchie indiscrete. Annuii tornando a fissarla negli occhi e lei incrociò le braccia sbuffando.
«Questa sta diventando un'ossessione. Non puoi pensare tutto questo solo perché il suo atteggiamento ti è sembrato strano.»
«Infatti, devo indagare e mi serve il tuo aiuto.» chiesi sfoggiando la tipica espressione da cucciolo bastonato. Mary iniziò a mordersi nervosamente il labbro, battendo il piede sul pavimento.
Sentivo che un giorno mi avrebbe detto chiaramente Elizabeth, smetti di parlare sempre di spiriti, ma se avessi potuto fare qualcosa per spingerlo a tornare, per rintracciarlo... Anche la più piccola delle cose, la più insignificante... Come trovare la pagina del libro, scoprire se il preside c'entrava qualcosa, doveva pur controllare i libri che venivano depositati in biblioteca e il professor Walker avrebbe potuto aver comprato quel volume solo per passatempo a meno che non si trattasse di un omonimo.
«Solo se troverai delle prove per cui valga la pena rischiare, ok? Altrimenti non è una questione che mi riguarda.»
Sorrisi, fingendo di non accorgermi del fatto che scuotesse il capo rassegnata.
«Hey Winsor!»
Quella voce capace d'infastidirmi quanto il suono provocato
dal gesso che graffia la lavagna e di spingermi a rabbrividire come se stessi strusciando le unghie contro un muro. Quelle labbra che scandivano in modo così irritante il mio cognome, convincendomi a odiarlo. Mi voltai di scatto per incrociare il suo sguardo spavaldo, quella sua espressione da ebete e quel sorriso beffardo con cui credeva di poter far cadere qualsiasi ragazza ai propri piedi. Alto quasi quanto me a primo impatto, dal mio punto di vista basso per essere un ragazzo; capelli e occhi scurissimi, come il petrolio, come le profondità del mare o di una grotta, che trasmettevano ovviamente una forte antipatia nei miei confronti nonostante quel sorrisetto provocatorio parlasse da solo. Mark, era quello il suo nome e sinceramente lo odiavo. Odiavo tutto di lui, non lo avrebbe salvato nemmeno un trapianto di cervello: quel suo stupido sorriso, la sua voce, i suoi capelli sempre tirati all'indietro, il modo in cui continuava a provocarmi, in cui camminava e ammiccava e, infine, il suo nome. Mi bastava sentirlo per balzare sull'attenti, pronta a ritrovarmelo alle spalle.
Eppure ero troppo orgogliosa per resistere alle sue stupide e infantili provocazioni, ma continuavo comunque a ripetermi di essere superiore e di poter affrontare la cosa da persona matura, diversamente da come faceva lui che aggravava la situazione, avendo già sperimentato la mia scarsa pazienza.
Lo ignorai voltandomi dalla parte opposta, continuando a parlare con Mary.
«Hai intenzione di ignorarmi per tutto il giorno?» chiese con aria di sfida, appoggiando violentemente le mani sul mio banco.
«Ci stavo provando.» risposi asciutta. Il mio spirito d'inventiva in ambito di frasi sarcastiche si ostinava a non saltare fuori, ma mi accontentavo di sfoggiare un linguaggio forbito e mantenere la calma di fronte ai suoi insulti e alle sue provocazioni, cosa che più adoravo fare.
«Stai perdendo la calma, Winsor?»
No, non stavo perdendo la calma, non volevo abbassarmi al suo livello. Iniziai a stringere con forza i pugni fino a sbiancare le nocche per resistere dal dirgli tutte le cose carine che pensavo su di lui. Carine, ovviamente, per essere sarcastici. Non riuscivo a capire perché, in sua presenza, tutta la mia calma e il mio buon senso svanissero, perché mi lasciassi andare così alle emozioni, come in presenza della folata di vento, ma con risultati peggiori.
In quel momento mi ritornavano alla mente le parole di mia madre: la pazienza è una grande virtù. Per lei poteva essere anche così, ma tutte quelle virtù non mi avrebbero aiutata in quel momento, non quanto un pugno ben piazzato.
«Andiamocene...» dissi sicura.
Dove volevo andare, poi? Allontanarmi di qualche metro e mimetizzarmi contro la cartina geografica?
Mark fu più veloce, iniziò a stringermi con forza il braccio, la stessa forza a cui mi ero abbandonata nello stringere i pugni, costringendomi a girarmi.
Se c'era una cosa che non tolleravo era che osasse toccarmi o il pretendere che stessi ai suoi ordini.
«Dove vuoi andare? Potrei accompagnarti...» mi ringhiò contro, per provocarmi.
Non riuscii più a trattenermi, soprattutto quando fece scivolare la sua mano lungo il mio fianco. Quanto era irritante e odiosa la sensazione provocata dal suo tocco sulla pelle. Mi liberai dalla sua presa, colpendolo proprio con un destro dritto al volto, anche se probabilmente fece più male a me che a lui. Portai le nocche alle labbra, soffiandoci sopra, sperando di non dargli soddisfazione. Mi stupii di me stessa e di quel coraggio che non sapevo da dove fosse spuntato, esterrefatta nel vederlo barcollare mentre continuava a toccare il sangue che gli scendeva dal naso per poi osservare i polpastrelli vermigli mordendosi il labbro inferiore per la rabbia. Mi scrutò con odio e proprio in quell'attimo, rapita da quella strana luce nei suoi occhi, una vocina dentro di me m'intimò di scappare.Mi sorrise con dolcezza, come se il volto gli si fosse rischiarato e alzò il pugno contro di me, per colpirmi, mentre io chiudevo gli occhi coprendomi con le braccia attendendo il colpo che stranamente non sembrava arrivare. Mi decisi ad aprire lentamente gli occhi, ritrovandomi davanti un ragazzo altissimo dai capelli castani e dagli occhi blu come il mare che stava tenendo Mark per il braccio, ancora alzato, invitandolo a smettere.
Oh, ciao mio nuovo eroe e salvatore.
«Lasciami!» gli ringhiò contro come un bambino, costringendomi a trattenere una risatina per non aggravare la situazione. Quella voce stridula, il modo in cui si dimenava... Tutto causato da quel ragazzo.
«Ti sembra il comportamento da assumere?» disse serio, senza trattenere un sorriso calmo e confortante, quasi fosse un adulto, stringendogli con forza il braccio, facendolo sussultare. Sembravano proprio padre e figlio, considerando anche l'altezza. Quel sorriso e quella calma, però, continuavano ad abbagliarmi fino ad accecarmi.
«Non credere che sia finita qui!» continuò mentre un sorriso, o meglio un ghigno, si disegnava sul suo volto come se fosse stato sicuro di aver vinto.
Si liberò velocemente dalla presa dell'altro che si era deciso a lasciarlo andare, sospirando sconsolato e sistemandosi la giacca con fare meticoloso.
Mi voltai verso Mary che, rimasta sullo sfondo, si trovava al mio fianco ed era arrossita alla vista del mio salvatore. Non ero l'unica a rimanere incantata dal nuovo eroe in circolazione, allora. Poi, a un tratto, mi ricordai di lui: Jonathan Davis. Alcune volte Mary me ne parlava nonostante preferisse sorvolare sulla questione, quasi fosse qualcosa di poco importante anche se, probabilmente, proprio perché era fin troppo importante per lei, preferiva non soffermarsi più di tanto sull'argomento. Dopotutto avevano frequentato anni e anni di scuola insieme, non poteva non essere importante. A un tratto mi ricordai di quando Mary mi confidò che il sorriso di una donna intenta a guardare l'uomo che amava era il più bello di tutti e, ripensandoci, tornai con lo sguardo sul suo volto, scrutandola attentamente. Quell'aria stranamente calma, come un cucciolo appena domato la rendeva così... Diversa?
«Cosa state facendo qui?» sbraitò la signora Sullivan, agitata, arrivandoci alle spalle, come se stesse succedendo chissà cosa. Ero stufa di tutte queste apparizioni improvvise.
Voce stridula, acuta e decisamente fastidiosa, come un vetro che si frantumava in mille pezzi.
Aveva assistito alla scena, o meglio, a partire dagli eventi che seguivano l'aggressione, come l'aveva definita. Okay, Mark iniziava a riacquistare terreno, ma non avrebbe potuto competere con il mio tono melodrammatico, da vittima.
A quanto pare il mio tono non era poi così melodrammatico se eravamo finiti entrambi in presidenza. La mia passeggiata nella scuola era passata inosservata e venivo spedita in presidenza a causa sua? Un motivo in più per odiarlo.
Mark venne accompagnato in infermeria da Mary e Jonathan mentre io mi avviai in presidenza. Quello stupido di Mark doveva sempre crearmi problemi e, sinceramente, il futuro colloquio col preside non si prospettava come una gradevole e divertente chiacchierata. Magari avrebbe compreso la mia situazione e avrebbe preso le mie difese; poteva sembrare strano, ma dopotutto doveva avere un minimo di umanità, no? Qualche precedente esperienza da padre di due figlie femmine? Finalmente di fronte alla stanza bussai alla porta, non prima di essermi abbandonata a un respiro profondo. Non ricevetti alcuna risposta, ma una professoressa mi riferì che il preside si era assentato per un attimo e che sarei potuta entrare liberamente.
La stanza del preside era davvero luminosa, ordinata e impeccabile, caratterizzata da un tappeto ovale e da libri di ogni genere riposti con cura negli scaffali o sui tavolini. Nulla di speciale, ma avere uno studio così non mi sarebbe dispiaciuto affatto. C'erano addirittura biglietti da visita, fotografie e tazze da tea... Cosa si poteva desiderare di più?
Urtai accidentalmente dei fogli che caddero a terra proprio come i teli scivolati giù dai mobili.
Li raccolsi in fretta, proprio come succedeva quando facevo cadere quelli di mio padre soffermandomi, prima di metterli definitivamente al loro posto, sul libro che vi era sotto incentrato sugli spiriti o meglio riti per invocarli e che aspettava esclusivamente di essere sfogliato. Rimasi stupita aprendolo velocemente, come presa da un raptus, dopo aver controllato più volte la porta, pregando che non si aprisse proprio in quel momento. Notai un incantesimo che poteva essere eseguito al buio nella prima pagina che mi era capitata sotto gli occhi e ripensai alla scuola durante la notte... Chissà se Mary le avrebbe considerate delleprove valide. Cosa stava architettando il preside lì tutto solo al buio? Improvvisamente tutti avevano i miei stessi interessi, meraviglioso.
Sorrisi euforica trattenendomi dal mettermi a saltellare per la gioia, continuando a sfogliare il libro.
Probabilmente mi sarei dovuta ricordare di ringraziare Mark, ma il mio orgoglio mi avrebbe impedito di farlo perfino se si fosse piazzato di fronte a casa mia con un mazzo di fiori e dei cioccolatini implorando, strisciando e piangendo, il mio perdono.
La maniglia si abbassò lentamente, un particolare insignificante, se non avesse potuto aggravare ancora di più la mia situazione. Riposi immediatamente il libro, ma con mio grande stupore mi ritrovai di fronte Mark che, con del cotone nelle narici, mi guardava con un'espressione perfida stampata in volto, quasi mi stesse ringhiando contro, proprio come un cane. Mi bastò incrociare ancora il suo sguardo per darmi della stupida, ripensando alla mia malsana idea di ringraziarlo e soprattutto di vederlo strisciare ai miei piedi. Era stato completamente merito mio e del mio destro ben piazzato, in fondo.
«Te la farò pagare... » sibilò in un sussurro.
Aveva ripetuto così tante volte quella cantilena che ormai non m'incuteva più alcun timore.
Fortunatamente il preside spuntò da dietro la porta, sorridendoci in modo stranamente gentile, prima che potesse davvero saltarmi addosso e farmela pagare.
«Vi prego di scusarmi se vi ho fatto aspettare...» disse invitandoci ad accomodarci e sedendosi dietro al tavolo del proprio studio mettendo le mani in grembo e accavallando le gambe, tornando immediatamente serio e distaccato da tutto, con quella scrivania messa come scudo, come se fosse un abisso a separarci invece di un semplice pezzo di legno. «Raccontatemi cosa è successo e sistemiamo in fretta questa questione...» disse dopo essersi lasciato sfuggire un signorina Winsor, ancora lei!, seguito da un sorriso quasi complice, mentre iniziava a sfogliare i propri biglietti da visita, con fare narcisista. Questo era un colpo basso.
Immediatamente iniziammo a raccontare le nostre versioni, indicandoci come bambini, alzando la voce senza lasciarci parlare tra un È stato lui/lei e qualche linguaccia. Il preside sospirava come un padre -chissà quante volte le sue figlie si comportavano allo stesso modo e si tiravano i capelli in occasione delle cene di Natale- e, con la sua solita aria disinteressata, mi diede pienamente ragione sulla questione, con mia grande sorpresa.
«Nonostante tutto...» ovviamente quando si trattava del preside Hughes non poteva andare tutto liscio. «Signorina Winsor, non avrebbe dovuto reagire in quel modo, anche se per difesa, mentre lei signorino Cooper dovrebbe smettere di attaccar briga giacché altri studenti si sono lamentati del suo comportamento.»
Mark abbassò il volto rosso di rabbia ormai con le spalle al muro. Era fin troppo orgoglioso per darmela vinta, come me dopotutto e per questo avrei lottato con le unghie e con i denti pur di tenergli testa. La mia timidezza e il mio fare gentile potevano farmi passare per un'ingenua, che in fondo ero, ma in questioni del genere il mio orgoglio riacquistava terreno.
«Comunque oggi mi sento particolarmente buono» continuò con un sorrisetto poco rassicurante «quindi non riprenderò severamente nessuno di voi a patto che non accada mai più una cosa del genere.»
Non era la fine che mi aspettavo, avrei voluto che Mark fosse punito, espulso o fatto inginocchiare sui ceci e frustato, ma dopotutto mi andava bene anche così e non potevo aspettarmi altro dall'espressione annoiata del preside che aveva lasciato scivolare la questione come accadeva con altri battibecchi tra studenti. Ci alzammo per uscire dalla stanza e Mark, con la coda fra le gambe, mi seminò uscendo quasi correndo, con lo sguardo rivolto verso il basso. Guardai un'ultima volta il libro ancora coperto dai fogli e il preside, stupito, mi si avvicinò posandomi una mano sulla spalla.
«Tutto apposto, Winsor?» mi chiese mentre un sorriso gli si delineava sul volto.
Le prove c'erano, ora dovevo solo convincere Mary a indagare. Iniziai a camminare lentamente per il corridoio cantando il motivetto di una canzone sentita non so dove. Mary e Jonathan mi vennero in contro a metà strada. Lei stranamente felice, con le guance imporporate di rosso, che non riusciva a sostenere il suo sguardo. Nessun ragazzo le avrebbe mai messo i piedi in testa, almeno così ripeteva e ora si era sciolta come burro. Solitamente, accanto a lei, mi sentivo così priva di carattere, come una bambola di pezza.
«Grazie mille per avermi difesa...» dissi a Jonathan appena gli fui abbastanza vicino da osservare il suo sorriso tranquillo.
«È stato un piacere... Comunque non devi prendertela, Mark è fatto così e sa davvero essere irritante. Lo conosco da tanto tempo, a volte non è così maleducato se lo conosci bene...» rispose, provando a giustificarlo. «Tutto ciò che fa è per un motivo.»
«Per mettersi in mostra o cosa? Non ci tengo certo a conoscerlo meglio...» risposi decisa.
Jonathan sembrava davvero un bravo ragazzo, ispirava sicurezza, dolcezza, protezione... Come faceva a stare con un maleducato come Mark? Eppure in quel momento il suo volto fu turbato da un'espressione imbarazzata, quasi avesse detto qualcosa di scomodo.
«Si è fatto tardi! Devo proprio scappare,ci vediamo domani!»
disse a un tratto, sorridendoci ancora, sviando la questione con fare sospetto, per poi scomparire in fondo al corridoio. Non avendo ovviamente altro da dire per difendere l'amico, era passato in ritirata.
Guardai di nuovo Mary ancora rossa in volto e non riuscii a trattenere un sorriso.
«Com'è andata con il preside?» chiese improvvisamente, per evitare che io le chiedessi qualcosa d'imbarazzante, ma il fatto che avesse tirato in gioco la questione riaccese il mio spirito da investigatrice.
«Qui ti volevo, ho scoperto delle cose interessanti...»
«Normale che abbia un brutto presentimento?»

ApparitionDove le storie prendono vita. Scoprilo ora