Quei giorni trascorsero lentamente, anche fin troppo, ripetendosi uno dietro l'altro. Lo spirito non si fece sentire ed io avevo ormai chiuso con le presenze, non che avessi smesso di crederci, tornando a quella lenta e stupida monotonia. Al libro del preside non era accaduto niente così ebbi la possibilità di restituirglielo. Ormai l'occulto era diventato l'ultimo dei miei pensieri, ero troppo presa dallo studio, anche se probabilmente mi ero chiusa tra i libri per trovare una via di fuga da quell'insolito abbandono. Quello spirito doveva essere proprio uno stupido per scomparire così, senza avvertirmi. Cosa avrebbe potuto fare, dopotutto? Cara Elizabeth, parto, non cercami inciso sul muro della mia camera? Almeno quelle sarebbero state delle prove. Perché nessuno riusciva a credere che davvero ci fosse stato qualcosa intorno a me?
Quella mattina mi svegliai e scostai le tende, come ogni giorno, permettendo alla luce di spazzare via tutta quell'oscurità che regnava in camera mia. Mi sentivo terribilmente stupida. Portai un braccio a coprire gli occhi, lamentandomi di tutta quella luce, come avrebbe fatto un vampiro. Ero sola, completamente sola. Di nuovo. Improvvisamente, come prima. Una sensazione di vuoto che ti coglie di sorpresa, quando ormai sei completamente abituata a essere circondata da persone che conosci, così inebriata da quella strana felicità che sei sicura che tutti rimarranno per sempre lì con te. Che un altro secondo da sola potrebbe ucciderti.
I miei genitori erano partiti per un viaggio di alcuni giorni mentre Mary era in Germania e sarebbe rimasta lì per una settimana. L'idea di stare davvero sola a Londra non mi rendeva particolarmente felice, non conoscevo nessuno e, ormai sola, sentivo ancora di più la mancanza del mio spirito. Avrei preferito sentire il suo calore, magari anche i suoi passi risuonare in quel silenzio tombale e il fatto che potesse avere ancora quell'effetto su di me m'irritava ancora di più.
Mi vestii svogliatamente, distante da tutto ciò che mi circondava. Sarei volentieri rimasta a casa a dormire, non mi sentivo nemmeno particolarmente in forma, sarei caduta da un momento all'altro come un sacco di patate, mettendomi a dormire. Mi mancava una bella notte di sonno e invece rimanevo sempre sveglia a riflettere. Mi trascinai lentamente verso il bagno, sospirando e prendendo un paio d'orecchini che riusciva ogni tanto a mettermi di buon umore. Ogni orecchino era formato da un cuore ricoperto di brillanti, attaccato a una catenella. Me li aveva regalati un bambino per il mio compleanno, tempo fa, per farsi perdonare l'essersi intrufolato nella mia festa in giardino.
Quel giorno mi resi davvero conto di quanto il college, senza la mia amica, potesse essere tremendamente vuoto, noioso e pesante. Più volte mi voltavo a osservare fuori dalla finestra, reggendomi la testa con una mano: il cielo stava diventando cupo e le nuvole scure e cariche di pioggia stavano prendendo il sopravvento. Nulla di positivo, la pioggia mi deprimeva, mi ricordava di quando mi ero fatta una bella corsa in mezzo alle pozzanghere con i sandali. Quella giornata si stava trasformando in una di quelle No, come le chiamavo io.
Dopo ore e ore di lezione mi assentai un attimo per recarmi al bagno. Mi sciacquai il volto con l'acqua fredda e, avendo sbadigliato per tutta la lezione, sentivo il bisogno di risvegliarmi. Dopo poco l'acqua diventò così fredda che rinunciai e chiusi il rubinetto. Mi bloccai nel sentire qualcosa di metallico cadere a terra, rimbalzando, proprio come una moneta. Un particolare insignificante se quel suono non mi fosse arrivato alle orecchie così nitido, come se mi avesse appena perforato il cranio. Ero andata a sbattere contro qualcosa? Guardai immediatamente verso il basso, ma l'unica cosa che notai furono le calze strappate sul polpaccio sinistro. Ecco, quella doveva davvero essere davvero una giornata No e in quel momento, se probabilmente qualcuno non mi avesse presa per una pazza nel sentirmi parlare da sola, avrei avuto voglia di sfogarmi anche con il vuoto. Naturalmente non era finita lì, il destino voleva riservarmi altri brutti scherzi: avevo parlato col Professor Walker del libro trovato in biblioteca e, guarda caso, al momento opportuno, la W era sparita, lasciando dietro di sé una lunga ramanzina su quanto siano immaturi scherzi del genere e, proprio prima che uscissi da scuola per tornare finalmente a casa, si mise a piovere a dirotto e dovetti restare a scuola aspettando che smettesse. Iniziai a odiare le previsioni sbagliate e il fatto che tutti avessero un ombrello e che nessuno fosse disposto ad accompagnarmi. Odiavo perfino le coppiette che camminavano vicine sotto lo stesso ombrello, mentre io me ne stavo lì da sola, con le braccia incrociate nel maglione, l'unica fonte di calore a cui potevo ricorrere, a tremare davanti all'ingresso, scrutando ogni piccola goccia di pioggia. Jonathan e Mark erano già tornati a casa, non che volessi passeggiare accanto a loro, sotto l'ombrello.
Sbuffai, stufa di aspettare, scattando e iniziando a correre sotto la pioggia, facendomi scudo con la cartella, nonostante non servisse a molto. Non bastò nemmeno il sacrificio dei miei poveri libri a salvarmi visto che ormai mi ritrovavo completamente zuppa. L'unica cosa che mi consolava era l'immagine della mia casa e del mio letto caldo.
Dopotutto cosa poteva accadere di peggio? Cadere. Mi maledii all'infinito, con tutta me stessa, per essermi posta quella domanda. Scivolai infatti sul fango fresco, accanto al marciapiede freddo e duro, anche più del legno della soffitta. Ormai arresa, sembravo aver intenzione di rimanere lì a lasciare che la pioggia ripulisse anche me. Imprecai e sbuffai rialzandomi di scatto e riprendendo la cartella, passandomi una mano fra i capelli completamente bagnati che ormai si erano attaccati alle guance e al collo, come per trovare anche loro qualcosa a cui aggrapparsi sotto quel diluvio universale. Avvertii uno scatto di rabbia, anzi avrei voluto addirittura mettermi a piangere. Quanto poteva essere stupido piangere per rabbia? Insomma, si piange per il dolore, per la felicità... Eppure arrivavano quelle giornate in cui bastava anche la caduta di una matita per spingermi a scoppiare in lacrime, come una bambina. Chiudere la porta di casa fu come fuggire da tutto, allontanare quel diluvio universale e dimenticare quella brutta giornata. Appoggiai la cartella all'ingresso lasciandomi cadere a terra con la schiena appoggiata alla porta, bagnando il parquet. L'unica cosa che feci, ritrovando quel poco di forza che mi scorreva dentro, fu alzarmi, abbandonare i vestiti nella lavatrice e avviarmi nuda e pallida come un fantasma verso il bagno per una doccia calda, ripromettendomi che non avrei più tentato di invocare spiriti.
L'acqua calda mi rilassò nonostante fossi ancora irritata e disperata. Mi passai le mani sulle ginocchia, appena sbucciate, seduta nella doccia, socchiudendo gli occhi, appoggiandomi al muro freddo, lasciando che l'acqua scivolasse su di me, in contrasto con quella gelida, rimasta sulle pareti.
Dopo essermi asciugata i capelli, indossai il pigiama e mi sedetti sul letto. Era quasi l'ora di cena, un pomeriggio buttato all'aria, ma non avevo voglia di cucinare e nemmeno fame, avrei desiderato solo dormire. Proprio in quel momento sentii il bisogno di sfogarmi con qualcuno e provai a chiamare mia madre, ma non rispose. Odiavo quando non mi rispondeva, se fossi stata in pericolo cosa avrebbe fatto?
Feci un ultimo tentativo telefonando perfino a Mary, ma rispose la segreteria. Appoggiai il cellulare sul comodino accorgendomi che la pioggia continuava incessante. Con tutto quel cielo scuro, la casa deserta e le porte che sbattevano per motivi sconosciuti mi tornava la voglia di piangere e l'unica cosa che avrei voluto era un abbraccio, uno di quelli caldi e rassicuranti di mia madre.
Non capivo cosa stesse accadendo nella mia testa negli ultimi giorni. Poi, per rettificare, ero proprio pessima nel lasciare da parte i problemi, li richiamavo tutti come per deprimermi ancora di più nel mio angolino buio come lo chiamava Mary.
Mi sembrava di aver sentito qualcosa di strano, magari un'altra porta che si chiudeva, che sbatteva con violenza, ma ero troppo intimorita per abbandonare la mia stanza. Avrei davvero voluto che quel fantasma fosse con me, mi sarei sentita meno sola e forse non avrei avuto così paura. Un fantasma potrebbe difendermi da un ladro o da un malintenzionato? Deglutii a vuoto guardandomi intorno e ripensai a quando non avevo più avvertito la sua presenza, a tutti quei momenti senza di lui. Beh, se mi aveva abbandonata poteva anche restarsene non so dove, a me non interessava. Bastò la porta della camera, che avevo chiuso poco prima, che si apriva improvvisamente a farmi sussultare, fino a urlare come una pazza e abbandonarmi alle lacrime, affondando il volto tra le mani e permettendo ai singhiozzi di riempire quel silenzio assordante. Piangere non mi sarebbe servito, non avrei potuto sentire i passi di qualche possibile assassino. Non ti succederà niente, continuavo a ripetermi, nonostante avrei preferito che fosse qualcun altro a dirmelo. Possibile che nessuno sembrasse disposto a parlare pacificamente con me e ascoltare tutti i miei problemi? Mi mancava l'essere bambina, quando non avevo preoccupazioni e, se la paura s'impossessava di me, c'era sempre qualcuno che mi cullava per farmi addormentare o mi cantava qualche canzone. Ora invece, ogni mese, mi ritrovavo a mettere in lavatrice i pensieri negativi e a ripulirmi il cervello a forza di lacrime. Ero sola e non riuscivo a smettere. Non c'erano un paio di braccia tra cui rifugiarmi, una voce dolce, un sorriso caldo come il sole che mi diceva di tenere duro e una mano che mi accarezzava i capelli. Solo il vuoto, il nulla, uno spazio freddo, un silenzio tagliente. Eppure quello che avvertivo era uno strano calore che mi avvolgeva completamente, come se qualcosa mi stesse abbracciando, come una grande coperta. Mi abbandonai a quella sensazione così strana e irreale, con le punte ancora bagnate dei capelli che mi solleticavano le guance e tenni gli occhi ben chiusi, così chiusi da sperare che tutto intorno a me si annullasse e mi risucchiasse in quell'oscurità... Tirai su col naso e mi calmai per un secondo, aggrappandomi a qualcosa, stringendolo con così tanta forza per salvarmi, per non sprofondare senza rendermi conto che quel qualcosa era lo stesso qualcosa che mi stava abbracciando. Non feci caso a quel qualcuno, alle mani che stringevano i suoi vestiti con forza, al volto affondato nell'incavo della sua spalla, a quelle braccia forti che passavano lentamente sulla mia schiena con un tocco così dolce e a quelle dita magre che pungevano, allarmavano quasi volessero portare tutta l'attenzione su di loro. Quando dischiusi gli occhi, tutto sembrò abbagliarmi, investirmi, lasciarmi senza qualcosa a cui aggrapparmi veramente, ma in fondo qualcuno mi stava veramente abbracciando, qualcuno che ancora non ero riuscita a mettere a fuoco, mantenendo gli occhi fissi sulla parete, a bocca aperta senza sapere cosa dire. Spostai, accecata, lo sguardo verso il suo volto, assottigliando gli occhi come per carpire qualcosa, ma proprio quando sentii le sue mani nascondersi impetuose e, allo stesso tempo, sicure tra i miei capelli, proprio come avevo pregato che accadesse poco prima, mi chiesi se non si stesse prendendo qualche libertà di troppo. Lo allontanai di scatto con una spinta, come una bambina all'asilo, facendolo barcollare nonostante fosse inginocchiato proprio di fronte a me, con gli occhi che bruciavano, quasi avessi osato spostare lo sguardo sul sole per un tempo troppo prolungato. E probabilmente dovevo avere la stessa espressione contratta, di disapprovazione, di una bambina... Nonostante le lacrime che rimanevano lì in attesa, impregnate di tutta la mia debolezza. Mi bastò metterlo a fuoco perché tutto si bloccasse, mentre quel suo sguardo gentile, sereno, sembrò sciogliere quel groppo alla gola, smorzato da uno strano sussulto che si rilasciava in un sospiro. E, confusa, mi sarei lasciata cadere di nuovo tra le sue braccia, catturata, intrappolata. Ispirava una strana fiducia con quel volto così chiaro, luminoso che, purtroppo, non lasciava trapelare niente di quello che, davvero, gli frullasse in testa... Eppure, nonostante non capissi, sarei rimasta ore a osservarlo, a imprimere ogni singolo particolare del suo volto dentro di me, quasi a volere che lacerasse la mia anima, che s'insinuasse con violenza nella mia carne. Ed era comparso dal nulla, come una presenza sovrannaturale, mi aveva salvata. Abbastanza alto, caratterizzato da capelli dello stesso colore dell'oro che gli ricadevano sulla fronte, spettinati e gli incorniciavano il volto... Rimasi a specchiarmi nei suoi occhi verdi come smeraldi incastonati in quel volto dai lineamenti perfetti e dalla pelle chiara e pallida, come quella di un cadavere. Quei suoi occhi dalle mille sfumature che cambiavano a seconda della luce sembravano rapirmi, mi ricordavano un bosco incantato. Sembrava preoccupato, ma la sua espressione era come quella di un bambino curioso nonostante quell'aria da uomo maturo. Mi ricordava quasi un angelo. L'angelo della canzone, forse? Non vedevo l'aureola o le ali, però, ma l'idea di avere un angelo custode al mio fianco non mi dispiaceva anche se, per quel genere di creatura, mi aspettavo un altro tipo d'apparizione. Magari con tante luci, piume, una bella musica. Oppure stavo solo sognando. Nonostante tutto sembrava un ragazzo come gli altri, indossava anche dei normalissimi jeans e un maglione piuttosto attillato sebbene un po' grande per lui, grigio come il cielo. Lo stesso maglione che poco prima avevo stretto come una bambina e lo stesso che, poco dopo, mi resi conto di voler indossare immaginandomi mentre glielo toglievo di dosso. Lo trovai quasi tenero e dolce, ma il problema era come avesse fatto a entrare in casa mia. Avrei tanto voluto chiederglielo, oppure domandargli perché mi avesse abbracciata, come se ci conoscessimo da una vita, chiedere informazioni a proposito del suo nome, ma l'unica cosa che uscì dalle mie labbra fu un urlo stridulo, preceduto da qualche secondo di silenzio. I miei riflessi sembravano essersi rallentati e gli occhi bruciavano.
«Per favore non gridare! Non voglio farti niente...» disse avvicinandosi preoccupato e posandomi una mano sulla bocca per farmi smettere, come se quel grido acuto non gli avesse perforato i timpani. La sua voce era semplicemente perfetta. Appena avvertii il suo tocco sussultai. I suoi polpastrelli sembravano bruciarmi la pelle come tizzoni ardenti, scottavano nonostante le sue mani fossero fredde come il ghiaccio. Come se caldo e freddo fossero due facce della medesima medaglia. Non riuscivo più a respirare, sentivo quella mano di ghiaccio premere appena sulla mia bocca, ma non c'era esclusivamente quello. Percepivo anche una strana sensazione farsi strada dentro di me, la stessa di quando lo spirito era con me, quel battito irregolare del cuore, quell'ansia e quella strana felicità che mi stringeva in una morsa. La felicità, poi, non doveva essere ricondotta a un qualcosa di piacevole? Alla parola felicità ormai riuscivo solo ad accostare quella morsa che mi stringeva il cuore, facendomi perdere completamente i sensi.
Rimasi a specchiarmi nei suo occhi verdi, perdendomi tra quei boschi tranquilli e profumati, smettendo di urlare all'istante mentre lui iniziava a sorridermi sereno, lasciandomi andare. Quel sorriso gli illuminava il volto e quei boschi sembravano riempirsi di lucciole dorate.
«C'è uno sconosciuto in casa mia che mi ha appena abbracciata, come faccio a non gridare?» dissi parlando pacatamente, iniziando a gesticolare in modo strano, respirando profondamente appena mi lasciò andare.
«Si può sapere chi sei? Cosa vuoi da me?»
«Elizabeth, calmati...» mi sussurrò con tono pacato.
«Come fai a dirmi di calmarmi, ma soprattutto come fai a sapere il mio nome? »
Ero sempre più esterrefatta, quello era sicuramente uno scherzo di pessimo gusto, a meno che non si fosse trattato di uno stalker.
«Beh, io non sono proprio uno sconosciuto. Noi ci siamo parlati o meglio tu mi hai parlato...» rispose pacato, sfoggiando il migliore dei sorrisi.
«Dimmi chi sei!» gli dissi alzandomi in piedi seguita da lui, come se fosse uno specchio o la mia ombra, come se fossimo legati da dei fili invisibili. Come se fosse la mia marionetta... O ero io la sua?
«Il mio nome è Arthur Joyce, piacere...» rispose con uno dei sorrisi più dolci che avessi mai visto. «O come mi piace farmi chiamare Sir Arthur Joyce, suona bene no?»
«Bene Arthur o come ti chiami, visto che questo è semplicemente uno scherzo, ti prego di uscire da casa mia anche se non so nemmeno come tu ci sia entrato...» risposi irremovibile avvicinandomi alla porta, per indicargliela nel caso non avesse compreso alla perfezione.
Arthur? Quel nome mi era quasi familiare e mi piaceva, in un certo senso, il suono era così dolce, soprattutto pronunciato dalla sua voce, ma non gli avrei comunque permesso di rimanere lì.
Quel ragazzo non avrebbe più varcato la porta di camera mia. «Aspetta Elizabeth non hai ancora capito chi sono?»
«Sei uno stalker, ecco cosa sei! Cosa dovrei capire a parte che un maniaco è entrato in casa mia? »
La mia voce stava assumendo un tono isterico, ma quella situazione, per quanto assurda e nuova, come piaceva a me, iniziava a spaventarmi.
«Elizabeth questa è anche casa mia, io sono qui dal primo giorno. Tu hai anche provato a parlarmi...» sbiancai. «Elizabeth sono io. Io sono lo spirito.»
Le sue parole ebbero lo stesso effetto di una secchiata d'acqua fredda con tanto di pezzi di ghiaccio; avevo davvero incontrato lo spirito che tanto cercavo? Non sapevo se credergli o no, tutto questo mi aveva confusa terribilmente, ma chi altro era a conoscenza di quella storia? Mary non avrebbe certo ingaggiato qualche strano attore per accontentarmi, no? Ormai il senza volto ce l'aveva un volto. Un volto così bello e perfetto che, nemmeno nei sogni più piacevoli e strabilianti, avrei potuto immaginare. Arthur, Arthur, Arthur. Il suo nome mi rimbombava in testa come se temessi di dimenticarlo. Il mio spirito era Arthur. Quel ragazzo così sincero, troppo dolce per mentirmi, ma allo stesso tempo pericoloso. Come poteva uno spirito, un morto, essere così bello e sembrare un angelo?
Lui era un morto, sempre se un morto poteva sorridermi in quel modo e abbracciarmi.
Il respiro che mancava, il cuore, l'ansia... Mi sentivo come un condannato a morte davanti alla forca mentre una grande folla gli urla contro Colpevole. Ora che avevo visto il suo volto, poi, mi chiedevo come avrei fatto ad allontanarlo, fare a meno di lui, escluderlo dalla mia vita.
E più lo allontanavo, più speravo che fosse tutto vero.
«Stai scherzando, spero?» chiesi tranquillizzandomi appena. «No, ovviamente.»
«Andiamo, pensi che ci creda? Almeno dammi una prova, i fantasmi dovrebbero essere anime, tu invece sei un ragazzo come tutti...»
Arthur sospirò per poi iniziare a dissolversi sotto ai miei occhi. Sentivo che una persona normale sarebbe svenuta di fronte ad una cosa del genere, ma io non ero affatto normale se stavo parlando con uno spirito. Vidi la sua immagine dissolversi lentamente permettendomi di vedere ciò che vi era dietro. Inizialmente pensai di essermelo tolto dai piedi, ma poi preoccupata presi a chiamarlo più volte.
«Arthur dove sei? Arthur non scherzare...»
La mia voce sembrava incrinarsi, stavo quasi balbettando. Quel dannato spirito mi faceva sentire ancora la sua mancanza. «Non preoccuparti, sono qui...»
Sentii la sua voce così dolce, ridotta a un sussurro, alle mie spalle e mi girai di scatto, sbattendo contro di lui, guardandolo dal basso.
Rimasi a bocca aperta.
«Da quanto sei qui?»
«Dal primo giorno, dopotutto questa era la mia casa delle vacanze...» rispose scrutando la mia
camera.
«Sei rimasto al mio fianco tutto il tempo?»
«Sì, appena hai messo piede qui... Dopotutto non dicevi di volermi incontrare?» chiese alzando appena le spalle, lasciando scivolare le mani all'interno delle tasche dei jeans, come per giustificarsi. Chi si credeva di essere?
Sì, avevo desiderato con tutto il cuore il suo ritorno, ma ora che me lo ritrovavo davanti il cuore aveva preso a martellarmi nel petto, mi sentivo quasi indifesa, priva di forze. Se era davvero così allora aveva visto tutto? Tutte le volte in cui mi ero sfogata, avevo parlato da sola e avevo camminato mezza nuda per casa. Era un sogno, solo un sogno. Non riuscii a sostenere il suo sguardo, ritornando a fissare il pavimento.
«Elizabeth...»
Sentirgli pronunciare il mio nome mi faceva quasi rabbrividire, gli avrei urlato volentieri di smetterla. Era così bello che quasi faceva male il solo sentirlo parlare.
«Sei solo un depravato!» gli urlai contro in preda alla disperazione prima di fuggire da lui, uscendo dalla stanza rischiando di ruzzolare giù dalle scale. Che uscita di scena. Sentivo il volto andare in fiamme e bruciare, bruciare così tanto che non mi sarei stupita se avesse preso fuoco.
Iniziai a scendere le scale velocemente aggrappandomi al corrimano, tentando di non inciampare. Cosa credevo di fare? Non potevo nulla contro uno spirito. E poi sarebbe dovuto essere lui ad andarsene visto che quella era camera mia.
Mi girai di scatto, era dietro di me e mi stava raggiungendo, anzi probabilmente l'aveva già fatto.
Sussultai mordendomi un labbro prima di voltarmi ancora, per poi ritrovarmelo davanti, inciampare e cadere tra le sue braccia come un manichino.
Quelle braccia mi facevano sentire protetta, ma allo stesso tempo era come se le mie difese fossero cadute come un castello di carta e la mia testa stesse girando come una trottola impazzita. Ma quando mai avevo avuto delle difese?
Tentai di liberarmi dalla sua presa, ma lui fu più veloce e m'imprigionò tra sé e il muro tenendo le braccia a lato della mia testa, lasciandole scivolare poi sulle spalle, quasi volesse scuotermi per risvegliarmi da un sogno.
Sospirò senza perdere il sorriso mentre tentavo di colpirlo e divincolarmi nonostante lui rimanesse immobile vista la poca forza e la poca voglia di fargli davvero del male.
«Che corsa...» sussurrò.
«Ma se ti sei limitato a sparire e riapparire... Da quando in qua voi fantasmi siete sempre così insistenti?»
Ridacchiò.
«Solo con le persone che c'interessano...»
«Ti dovevo interessare davvero tanto, visto che mi hai abbandonata per più di un mese...» risposi sarcastica, incrociando le braccia per poi pentirmi subito dopo di aver assunto quell'atteggiamento da ragazzina ferita e abbandonata. Arthur mi guardò stupito per poi tornare a sorridere allegro, come per rimproverarmi quella frecciatina.
«Sei leggermente irritata perché non mi sono fatto sentire per un mese?» Non risposi, imbarazzata.
«Allora ti sei offesa davvero. Ti sono mancato?» chiese, quasi trovasse la cosa divertente.
«No, mi stavo solo preoccupando...» risposi iniziando a fissare qualcosa d'indefinito alla mia sinistra.
Come se a uno spirito, ormai morto, potesse capitare qualcosa di grave. Pessima scusa.
«Dai Elizabeth, ti sono davvero mancato? Volevi davvero incontrarmi? Elizabeth per favore guardami...»
«Mi sei mancato, contento? Ti sembra questo il modo di comportarti? Andartene da un momento all'altro? Cosa ti hanno insegnato?»
Ormai dovevo essere davvero rossa in volto, ma qualcosa, lo stesso qualcosa che mi stava spingendo sorridere, mi stava ricordando che quella giornata, dopotutto, non era stata poi così terribile, anche se stavo dicendo a uno spirito che mi era mancato, come se niente fosse. Probabilmente era solo un sogno, avrei potuto dirgli qualsiasi cosa. Era solo uno spirito, un morto.
«Sono pronto a spiegarti qualsiasi cosa...» rispose lasciandomi finalmente andare, per poi sedersi con me al tavolo della cucina. Mi preparai un panino alla velocità della luce, lamentandomi dell'essere osservata, per poi mettermi davanti a lui e lasciarmi spiegare curiosa. Arthur appoggiò il gomito sul tavolo reggendosi il volto con la mano e iniziando a sorridere.
«Risponderò a ogni tua domanda...»
«Bene, da quanto sei qui, perché te ne sei andato, come faccio a vederti, quanti anni...»
«Lentamente, per favore...» m'interruppe scherzosamente. «Iniziamo dal perché sono qui: la mia dimora in realtà era situata a Oxford, questa era solo la casa per le vacanze.» provai a dire qualcosa, ma m'interruppe. «Sono morto qui a Londra e quindi la mia anima si trova qui nonostante possa andarmene liberamente dove più mi aggrada. È difficile da comprendere, ma ti spiegherò meglio un giorno.» continuò. «Quando sono morto avevo diciannove anni e questo è ancora il mio aspetto nonostante il tempo: l'anima non invecchia, è il corpo a farlo.»
«In che secolo sei vissuto?»
Sorrise, immaginando la mia reazione.
«Seconda metà dell'Ottocento.»
«Cosa?»
Trattenne una risata.
«Questo vuol dire che sei molto vecchio.»
Avrei fatto qualsiasi cosa pur di avere altre informazioni riguardo al suo passato, ma non ebbi il coraggio, non gli sarebbe sicuramente piaciuto parlare di avvenimenti così privati o probabilmente tragici, visto che avevo appena scherzato sulla sua età con la delicatezza di un elefante. Mi venne una fitta al cuore pensando che fosse morto così giovane, magari la sua vita non era poi così male. Perché avevo la brutta abitudine di sentirmi in colpa per tutto?
«Scusami...» abbassai lo sguardo mentre il sorriso si era completamente eclissato dal mio volto.
Arthur sembrò accorgersene e si addolcì ancora, sporgendosi verso di me, quasi dovesse sussurrarmi qualcosa.
«Sei molto più carina quando sorridi...»
Sorrisi inconsciamente per nascondere quel forte senso d'imbarazzo che stava prendendo il sopravvento. Altro mio stupido vizio.
«Non credere che io mi fidi di te.»
Lo vidi sorridere e per un attimo pensai che la sua risata fosse così bella, così soave, così contagiosa.
«Continuando... Mi sono allontanato da te per tutto quel periodo perché sono stato piuttosto occupato...» «Riunioni di spiriti? Aldilà?»
Mi sorrise.
«Più o meno, ma ora arriviamo al punto più importante:
perché mi vedi. In realtà tutti gli spiriti possono interagire con i vivi facendo sentire la loro presenza come facevo io con te. Il mondo dei morti e quello dei vivi sono molto differenti, è come se ci fosse una barriera che segna un confine e vieta alle anime di entrare in contatto con i vivi più del dovuto. Posso farmi vedere da te, assumendo quest'aspetto così umano. Riesci a toccarmi come se fossi un umano, ma gli altri non possono comunque vedermi e tutti quei libri d'incantesimi che hai consultato sono totalmente inutili.» non ero certa di aver compreso appieno tutti quei discorsi che continuavano a confondermi più del dovuto. «Se devo essere sincero sarebbe vietato a questi due mondi interagire tra loro, potrebbero esserci effetti collaterali e uno dei due finirebbe per prendere il sopravvento sull'altro. Ma quando ti ho vista lì... Non ce l'ho fatta... E mi dispiace.»
S'irrigidì, distogliendo lo sguardo e aggrottando le sopracciglia, sovrappensiero.
Arrossii di nuovo e rabbrividii al tempo stesso, al solo pensiero che uno dei due mondi potesse essere fagocitato dall'altro. «Allora noi non dovremmo frequentarci...» tagliai corto.
Iniziò a tamburellare le dita sulla superficie liscia del tavolo; avevo decisamente centrato il problema. Si alzò di scatto, con mio grande stupore, continuando a sorridere anche se non più in modo sincero come prima.
«Rispondimi.» dissi, seguita da un sospiro sconsolato.
«Continueremo la discussione un'altra volta, abbiamo già fatto troppo tardi...» rispose con l'intento di sviare l'argomento. Mi avvicinai a lui come per fermarlo, senza però osare sfiorarlo.
«Aspetta, voglio sapere come mai, se sei morto tanto tempo fa, indossi vestiti così moderni e ti comporti come un ragazzo del ventunesimo secolo! E poi non prendermi in giro, le anime non dormono, credo! Poi cosa accade dopo la morte, insomma dove finiscono le anime? Esiste il paradiso? Ci deve essere qualcosa!» dissi con tutta la sicurezza che avevo in corpo, come se quella fosse stata l'ultima volta in cui avrei potuto parlargli. Dopotutto cosa potevo saperne, sarebbe potuto sparire ancora senza troppi sensi di colpa. Poteva mantenere quel sorriso sincero, ma chi mi assicurava che stava davvero dalla mia parte e non cercava semplicemente d'ingannarmi?
«Tantissimi studiosi o filosofi hanno lavorato per tutta la loro vita su argomenti del genere e tu vuoi sapere tutto in una sera? Te lo dirò un'altra volta.»
«Non riuscirò più a chiudere occhio la notte con questo dubbio!» dissi più seria che mai, gesticolando.
Scoppiò a ridere, senza prendendomi sul serio. Possibile che non riuscissi mai a incutere timore a nessuno?
«Devi solo avere pazienza, alle anime non è permesso raccontare così tante cose...»
«Prima o poi riuscirò a farti confessare tutto, invece.» risposi minacciosa.
Ero troppo stanca per continuare a contro ribattere e troppo poco minacciosa mentre Arthur mi accompagnava, o meglio mi trascinava, in camera mia lasciandomi basita sulle sue intenzioni.
«Buona notte Elizabeth...» mi sussurrò bloccandosi sull'uscio, salutandomi appena con una mano.
«Ti conviene rimanere là fuori...» risposi chiudendo lentamente la porta. «Andiamo Elizabeth, sono uno spirito, non puoi aspettarti di fermarmi con una porta...»
Sentii ancora la sua risata intrufolarsi nel legno della porta per arrivare fino a me, come un vento fresco.
«Arthur... Grazie...»
Sì, lo stavo ringraziando e lo facevo perché in poco tempo era riuscito a sollevarmi il morale e a trasformare una giornata orribile in una meravigliosa. E perché mi aveva abbracciata.
«Prego.»
Mi piaceva il modo in cui capiva al volo quello che gli volevo dire, sembrava un tipo intelligente.
Per un attimo pensai che fossero tutte le mie attenzioni e il fatto che gli dessi importanza a riportarlo in vita. Sarebbe stato bello. Era come un libro... Se non veniva letto non esisteva e così un fantasma. Se qualcuno non pensava a lui o lo ricordava non esisteva. Era qualcosa di così vuoto, ma pieno al tempo stesso. Così invisibile, ma presente e concreto. Ero il suo miracolo. Lui era il mio.

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Apparition
RomanceElisabeth è appena tornata a Londra dopo alcuni anni e finalmente può dedicarsi alla scuola, agli amici e vivere come qualsiasi ragazza della sua età. Eppure, nonostante riesca finalmente a inserirsi, non l'abbandona mai uno strano senso di solitudi...