Ero rimasta sveglia per tutta la notte, rannicchiata tra le mie coperte, a scrutare il soffitto, le ombre, a fare possibili progetti su quello che sarebbe successo, su come mi sarei comportata e tutto il resto. Almeno non dovevo preoccuparmi di come vestirmi avendo l'uniforme, un peso in meno per i miei standard.
Il mio primo giorno dell'A-level doveva essere speciale. Sarebbe accaduto qualcosa che mi avrebbe sconvolto la vita e tutto sarebbe cambiato, speravo. Avrei avuto così tanti amici da non sapere più con chi uscire. Anche se, in fondo, la mia vita non poteva cambiare così da un momento all'altro, come per caso. Lo stesso caso per cui, nei romanzi zuccherosi per quattordicenni, la ragazza inciampa o fa qualcosa di altrettanto stupido ritrovandosi magicamente tra le braccia del ragazzo dei suoi sogni. Mi alzai di scatto dal letto, precedendo la sveglia, senza indugiare, contando entusiasta i minuti che mancavano all'inizio della scuola. Indossai la mia uniforme: gonna e giacca blu, con lo stemma del college, e una camicia bianca. Feci una piroetta proprio davanti allo specchio lasciando che la gonna si alzasse e abbassasse intorno alle mie ginocchia, come i cavalli di una giostra. Lasciai sciolti i capelli color grano, lunghi fino a metà schiena, che si gonfiavano e si arricciavano. Mi sentivo quasi protetta e abbracciata da quella massa di capelli che mi ricadeva sulle spalle. Inoltre erano ancora rimaste le sfumature più chiare lasciate dal sole estivo. Impossibile come bastassero pochi giorni a far diventare quel sole delle vacanze in Italia esclusivamente un ricordo, anche perché quello settembrino era semplicemente malinconico con l'unico scopo di farti pensare che quel caldo non era poi così insopportabile rispetto al gelo invernale.
Scrollai il capo, alternando qualche smorfia di fronte allo specchio, per poi recuperare la cartella avviandomi fuori di casa, correndo come inseguita, sperando che in quel modo il tempo scorresse ancora più velocemente. Saltellai prima su un piede e poi su un altro aspettando di aprire il cancello, ma quello decise di precedermi, spalancandosi da solo, come sospinto da una folata di vento. Inizialmente pensai proprio a quello, ma non c'era più la brezza londinese del giorno precedente, ormai sostituita da uno strano sole che, in fondo, non riscaldava nemmeno un po', come se fosse stato una semplice illusione. Guardai il cancello inarcando un sopracciglio, stupita, per poi lasciarmi sfuggire un Grazie e un inchino appena accennato e accompagnato da una risatina mal trattenuta. Un'anziana signora, probabilmente la vicina, mi guardò stupita e iniziai a ridere come una pazza, piegandomi appena. Se il cancello mi si apriva da solo, nessuno mi avrebbe più fermata oggi, un altro buon segno. Oggi il mondo intero si prostrava ai miei piedi, forse.
Uscii e chiusi il cancello alle mie spalle osservando il citofono, i miei genitori avevano già fatto scrivere i nostri nomi: Eldred Winsor-Anne Harrison-Elizabeth Winsor.La scuola era davvero enorme, sembrava una piccola città. Il cancello l'immenso giardino dove brulicavano folle di studenti, alcuni seduti sull'erba, altri che accerchiavano la bancarella dei dolci o che giocavano nel cortile. Tutto intorno a quel meraviglioso parco si ergeva l'edificio su cui figurava una torre con un orologio. Era interessante e anche abbastanza antico, almeno così sembrava. Come avrei fatto a trovare la mia classe?
Sospirai iniziando a camminare verso l'entrata, o almeno quella che sembrava tale, visto che riuscivo a scorgere porte ovunque. Osservavo tutti quei volti sconosciuti che mi circondavano senza ricordarne nemmeno uno, come se mi trovassi in un grande stadio e tutte quelle persone si confondessero. Qualcuno mi sorrise con il risultato di farmi accelerare il passo, arrossire e distogliere lo sguardo mentre borbottavo sottovoce.
Entrai immediatamente nell'edificio lasciando che quel forte odore di disinfettante mi aggredisse. Sembrava di essere in un ospedale e il pavimento risplendeva come uno specchio. Tutto era impeccabile, come se fossi stata la prima a mettere piede lì dentro... Mi faceva sentire stranamente a mio agio e mi rilassai, abbandonandomi a un sospiro. Spostai per caso lo sguardo sulla segreteria, dove una ragazza dai capelli castani mi dava le spalle, aspettando la segretaria, appunto. Se c'era una cosa che sembrava odiare, proprio come me, era aspettare; lo intuivo da come batteva nervosamente il piede sul pavimento, come se volesse rompere lo specchio che aveva proprio sotto di sé. Aspettare persone, eventi o ciò che sapevi non sarebbe mai arrivato era odioso. Mi avvicinai lentamente sperando che abbandonasse tutta quell'ansia e mi aiutasse.Appena le fui abbastanza vicina accennai un saluto, nascondendo un velo di timidezza, sistemandomi una ciocca di capelli dietro l'orecchio, cosa che facevo sempre quando ero così tremendamente agitata, ma lei non sembrò rispondermi. Mi sporsi verso di lei, aperto permetteva allo sguardo di percorrere sospettando che non si fosse accorta di niente e ripetei.Si girò di scatto, facendomi sussultare, permettendomi di osservare finalmente il volto della prima persona che avevo scrutato per qualche minuto e che, speravo, non avrei dimenticato. Era davvero graziosa, i capelli castani le ricadevano sulle spalle mentre mi scrutava da capo a piedi con i suoi occhi color nocciola, così caldi e profondi da trasmettermi sicurezza. Sulla bocca le si era delineato un sorriso, nonostante a primo impatto mi avesse scoccato un'occhiata poco rassicurante.
«Ciao!» rispose al mio terribile tentativo d'approccio, sorridendo senza un briciolo d'imbarazzo, con un tono di voce sorprendentemente euforico.
«Scusa se disturbo, ma volevo sapere se potevi darmi una mano a trovare la mia classe. Sai com'è, questo college è immenso...» dissi velocemente, spostando lo sguardo sui piedi che avevo iniziato a piegare verso l'esterno, per concentrarmi su altro. Avrei voluto eclissarmi.
«Letteratura inglese del primo anno...» precisai.
«Che coincidenza, anche la mia! Piacere, Mary Wilkinson!» disse porgendomi la mano, mantenendo ancora quel bel sorriso, senza nascondere quei denti bianchi e perfetti, come perle. Gliela strinsi sorridendo, sembrava una brava ragazza, originale e grintosa, ma brava.
«Piacere, Elizabeth Winsor...»
«Bel nome! Nemmeno io so dove sia la classe comunque, stavo giusto aspettando la segretaria... Il mio senso dell'orientamento è come quello di mia nonna ogni tanto, pessimo. Mio padre non fa altro che ripetermelo.»
Mi colpiva il modo in cui parlava apertamente e accennava a quei suoi piccoli aneddoti. Mi guardai ancora intorno senza abbandonare del tutto l'imbarazzo, lasciando che fosse lei a trovare un argomento valido per intraprendere una qualche conversazione. Come primo passo era buono, avevo trovato qualcuno di simpatico di cui fidarmi in giro per il college, soprattutto se quel qualcuno aveva scelto in parte le mie stesse materie. Mary si lamentò più per il ritardo che per il mio continuo chiederle il nome, non perché l'avessi dimenticato, ma perché volevo essere certa di averlo ricordato bene. Mi lasciai sfuggire un sospiro annoiato, anche perché avrei preferito parlare con lei per ore, appena riuscimmo a raggiungere la nostra classe e ci sistemammo ai primi posti, l'una vicina all'altra, iniziando a presentarci ad alcuni degli studenti. Molti si conoscevano da molto tempo e altri avevano formato vari gruppi. C'erano quelli più timidi, quelli con dei libri in mano e le ragazze che si sistemavano il trucco di prima mattina. Noi eravamo rimaste escluse, ma dopotutto ci andava bene, c'era ancora tempo e diventare popolare, andare alle feste e bere non era ancora uno dei miei obiettivi principali... Nemmeno quello di essere esclusa, però. Magari ci saremmo inserite, col tempo... Tanto tempo.
Subito alcuni dei professori si presentarono, entrando velocemente in classe con il risultato di far tornare gli studenti ai propri posti, come tanti topolini che tentavano di raggiungere la propria tana, e il signor Walker, professore di letterature inglese, restò con noi. Tutti lo conoscevano, era uno dei professori più preparati e competenti del college nonostante tendesse a litigare con il preside. Litigi di coppia commentò Mary, ma io scossi il capo fingendo di non capire per poi ricevere una gomitata seguita da un Stavo scherzando. Speravo almeno fosse simpatico, me ne erano capitati tanti di professori noiosi, del tipo che ti fanno addormentare proprio sul libro.
Il signor Walker era davvero anziano, i suoi capelli erano ormai bianchissimi e i suoi occhi celesti avevano perso intensità assumendo l'aspetto di due pozzanghere. Le rughe che gli attraversavano il volto non miglioravano nemmeno la situazione. Almeno aveva un che di arzillo in quelle due pozzanghere nonostante, ogni volta che mi guardasse, mi ci sentissi affogare dentro, come risucchiata. Mary, nonostante si lamentasse per il suo continuo togliersi e rimettersi gli occhiali, trovava la mia fantasia abbastanza divertente ridendo ogni volta nell'incrociare il suo sguardo, immaginandosi sprofondare. Solo per me era una cosa grottesca e inquietante?
Il primo giorno del college era andato anche meglio del previsto e Mary e io avevamo così tante cose da dirci che ci scambiammo addirittura i numeri di cellulare. All'inizio mi ero spaventata per la grandezza dell'edificio soprattutto per il timore di arrivare in ritardo alle lezioni a forza di girare per quel labirinto, ma Mary era riuscita a rassicurarmi. Aveva anche proposto l'idea di un walkie talkie nel caso ci perdessimo.
Una piccola porticina, ben mimetizzata, sul soffitto. Notata solo nell'attimo in cui mi ero ritrovata con la schiena dolorante a terra, dopo essere scivolata sulla cera appena data. Una soffitta, passata inosservata perfino agli occhi dei miei genitori, sempre attenti a qualsiasi microscopico dettaglio. Mio padre, con quell'aria da padrone dell'universo, mi vietò di salirci protestando e sostenendo di non aver alcuna intenzione di prendere la scala e che sicuramente non ci sarebbe stato niente d'interessante là sopra. Sgattaiolai fuori dal suo studio, assumendo il suo stesso tono di voce, imitandolo e parlando da sola, lamentandomi del suo menefreghismo. Magari là sopra c'era un qualche scheletro o qualche oggetto antico che aspettava esclusivamente che io lo riportassi alla luce del sole. Quella curiosità mi logorava dentro nonostante la paura di trasgredire alle regole, soprattutto se si trattava di mio padre che, in quelle occasioni, non si mostrava più tanto incurante. Cosa mai ci poteva essere di male nel visitare una vecchia soffitta da sola? Ok, le soffitte delle altre case erano completamente vuote, polvere esclusa, ma questa poteva essere la volta buona, magari. Era come giocare per l'ultima volta alla lotteria per tentare di vincere ancora qualcosa.
Sentii vibrare il cellulare, abbandonato sul letto, mentre ero intenta a progettare il mio piano per raggiungere la soffitta. Il nome di Mary comparve sullo schermo e mi affrettai a rispondere. Wow, qualcuno per una volta mi chiamava al telefono. Non le diedi nemmeno il tempo di chiedermi come andasse o di accennare un qualche saluto che iniziai a raccontarle della casa, camminando avanti e indietro, ma soprattutto di quella maledetta soffitta, lasciandomi sfuggire addirittura la storia del cancello. Sostenne, scherzosamente, che la casa avrebbe potuto essere infestata, che avrei trovato qualche libro con una maledizione, che sarebbero spuntati da ogni parte morti viventi o assassini che brandivano motoseghe elettriche. E mentre accennavo una risata, mi voltai senza rendermene conto, mentre questa mi moriva in gola. Un automatismo, un gesto spontaneo, come se mi fossi voltata per rispondere a un richiamo, per sorridere a qualcuno, per incatenare i suoi occhi ai miei. Eppure stavo solo tenendo gli occhi fissi sulla parete, assottigliando lo sguardo, come per assumere un'aria di sfida. Eppure mi sentivo così coinvolta, come se tutto si fosse fermato. Come se le voci nella mia testa non fossero mie. Una folata di vento, un'aria fresca e frizzante che mi aveva accarezzata e abbracciata, insinuandosi sotto i vestiti e tra i capelli, divertendosi a farmi rabbrividire. Sentii una voce fresca, sempre più vicina che scandiva con lentezza ogni sillaba, fino a pronunciare il mio nome con chiarezza, come in un sogno. Eppure non era Mary. Non era la mia immaginazione. Era...
«Terra chiama Elizabeth, attenzione? Sei stata rapita? Sei ancora lì?...»
Sussultai e sbattei le ciglia, come se mi avessero tirato una secchiata d'acqua fredda o come se quella folata di vento si fosse trasformata in grandine. Grandine fredda e tagliente che mi sferzava la pelle, rimanendo intrappolata nella carne, come tanti piccoli aghi.
«Non ti sentivo più, sarà stato un problema della linea...» sussurrai tornando a fissare quel punto indefinito. Forse dovevo solo riposare.
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Apparition
Roman d'amourElisabeth è appena tornata a Londra dopo alcuni anni e finalmente può dedicarsi alla scuola, agli amici e vivere come qualsiasi ragazza della sua età. Eppure, nonostante riesca finalmente a inserirsi, non l'abbandona mai uno strano senso di solitudi...