Capitolo IV - Parte I

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  Dire che Jason era preoccupato è un eufemismo: non vedeva Nico a scuola da ben tre giorni e non era mai successo, se non quando c'era stato l'incidente.
Aveva chiesto a Percy, ma lui non sapeva nulla, aveva chiesto a Leo, ma nemmeno lui era a conoscenza del motivo di una tale assenza, poi si era addirittura rivolto a Cal, che gli aveva detto che non sapeva cosa "stesse facendo quello stronzo" e che, anche se l'avesse saputo "non l'avrebbe detto a un traditore del cazzo come lui". Insomma, non sapeva più a chi rivolgersi... o quasi. Svoltò l'angolo e si ritrovò di fronte esattamente la persona che meno avrebbe voluto incrociare: Will Solace. Lo vide bloccarsi di colpo, con un'espressione stupita che subito si trasformava in rabbia, e Jason non poté fare a meno di voltarsi dall'altra parte per evitare il suo sguardo accusatorio.
«Non hai nemmeno il coraggio di chiedermi come sta Nico?» chiese a un tratto Will, cercando i suoi occhi.
Jason, per un secondo dimenticandosi del suo desiderio di allontanarsi il più in fretta possibile da lì, esclamò: «Perché, tu sai che fine ha fatto?»
Will spalancò nuovamente gli occhi: «No, non ci credo...» disse, senza rivolgersi a qualcuno in particolare.
«Cosa? Che è successo, Will?»
Si passò una mano fra i ricci biondi, scompigliandogli ancora di più del normale: «Jason, vai a casa sua oggi pomeriggio. Se sei stato per un minuto un amico per Nico, devi stargli vicino...»
«Che cazzo è successo, Will?» chiese di nuovo Jason, con la mente che iniziava a elaborare scenari terribili, dove Nico era sempre la vittima.
«Senti, Jason, hai evitato Nico per una settimana intera, quindi ora il minimo che puoi fare è andare da lui, scusarti e stargli vicino. Sei stato un vero stronzo, e non ho proprio voglia di consolarti o compatirti, quindi, per favore, vai da Nico e togliti quell'espressione colpevole dalla faccia, che tanto non serve a nulla» e, detto ciò, lo superò senza troppe cerimonie e se ne andò, lasciandolo nel panico più totale.

Jason aveva ritirato le sue cose nello zaino più in fretta possibile, cercando di non incrociare sulla strada verso l'uscita qualcuno che conoscesse, cosicché nessuno avrebbe potuto fermarlo e iniziare a parlargli. L'unica cosa che desiderava, in quel momento, era avere la possibilità di ritornare indietro di due settimane e cancellare la cazzata enorme che aveva fatto, oppure permettere al se stesso del passato di fare una chiacchierata con il se stesso di adesso. Sì, aveva fatto un madornale e aveva tutte le intenzioni di rimediare, in un modo o nell'altro.
Appena uscito da scuola, iniziò a camminare velocemente verso la casa del suo amico: aveva fatto talmente tante volte quel percorso che ormai lo conosceva a memoria, ma questa volta era diverso, questa volta non c'era Nico che, vicino, gli parlava dell'ultimo videogioco, di serie TV, di scuola o di qualunque altra cosa gli venisse in mente, non c'era Nico che faceva battute acide, non c'era Nico che ogni tanto sorrideva piano, non c'era Nico con le sue guance che s'arrossavano appena iniziavano a parlare di cose un poco più serie o quando Jason gli faceva qualche complimento. Non c'era Nico e basta.
Possibile che tutti gli anni che aveva trascorso con lui non gli avessero insegnato nulla? Che non gli avessero fatto capire che quel ragazzetto pelle ossa con la fissa per i videogiochi e per il nero non si fidava di chiunque? Si rendeva conto ora che, probabilmente, una volta arrivato sotto casa sua non sarebbe potuto nemmeno entrare, perché Nico non gliel'avrebbe permesso: in una settimana era riuscito sicuramente a perdere del tutto la sua fiducia, e si sentiva terribilmente male per questo. Non riusciva a immaginare un giorno in cui lui si sarebbe svegliato con la consapevolezza che andare a scuola avrebbe significato vedere il suo migliore amico guardarlo con odio o rabbia o, peggio ancora, delusione. Non riusciva nemmeno a concepire una partita di calcio senza quell'ombra silenziosa a bordo campo che l'osservava e lo sosteneva col solo sguardo. Non voleva perderlo, non avrebbe voluto farlo soffrire... ma stava riuscendo a fare entrambe le cose, e con una bravura spaventosa.
Arrivato sotto la villa enorme dell'amico, suonò il campanello. Sperò che la madre di Nico non fosse ancora tornata dalla sua vacanza, e soprattutto sperò che Nico gli aprisse in fretta, perché ogni secondo trascorso fuori da quella porta gli sembrava il più lungo di tutta la sua vita. Purtroppo non fu così, tanto che, passati quasi cinque minuti da quando aveva suonato la prima volta, era stato lì per andarsene. Per fortuna poi la porta si era aperta e Nico aveva esordito, senza ancora vederlo in faccia, dicendo: «Ciao Will, sali pure, io...-» poi aveva spalancato la porta e, trovandosi Jason davanti, si era come congelato sul posto.
«Ciao Nico» disse. Non aveva nemmeno il coraggio di alzare gli occhi, si sentiva una persona terribilmente codarda, ma lo sguardo rimaneva puntato a terra.
«Jason...?» balbettò Nico, dopo aver trattenuto il respiro per quasi mezzo minuto.
Solo allora il ragazzo si decise ad alzare lo sguardo e a incrociare i suoi occhi, ma si fermò prima, vedendo in che condizioni era ridotta la sua faccia: «Oh cazzo, Nico! Cosa accidenti ti è successo?» urlò, sconvolto. Un enorme livido violaceo copriva gran parte dello zigomo destro del ragazzo, il labbro inferiore era spaccato, la fronte era ricoperta di graffi e tagli di vario tipo. Le braccia erano anch'esse piene di ferite di vario genere e le ginocchia erano coperte da due enormi cerotti bianchi, il cui colore non si discostava molto da quello della carnagione di Nico.
Nico alzò lo sguardo, cercando quello dell'amico, quindi disse: «Niente di grave, tranquillo... Will mi ha dato una mano, e sto bene».
«Ma chi ti ha ridotto in quello stato? Ti giuro che farò tutto il possibile per fargliela pagare, non devi aver paura, io...-»
«Io non ho paura» lo interruppe Nico: «Non ho più paura, e tu non devi fare proprio niente. So cosa devo fare, e Will mi ha detto che mi darà una mano».
Di nuovo Will... perché lui? Pensò, ma poi si rispose da solo, dandosi dello stupido mentalmente. È ovvio: io non ci sono stato per lui, non c'ero quando è successo. Posso pretendere quindi che voglia che io lo aiuti?
«Raccontami cos'è successo, almeno. Ti prego, Nico» lo implorò Jason.
«Cosa devo dirti? Vuoi sentire la parte in cui mi hanno tappato la bocca e trascinato nel grande piazzale di cemento davanti alla fabbrica abbandonata? O quella in cui hanno incominciato a insultarmi senza un motivo, mentre mi riempivano di calci? Le aggressioni sono tutte uguali, Jason. E io non ho nulla da raccontarti».
Ma Jason si era fermato a un dettaglio: il piazzale. Conosceva bene quel posto, ci passava tutte le mattine quando andava a scuola; che ci faceva, quindi, Nico da quelle parti?
«Perché eri vicino alla fabbrica, Nico?» chiese quindi, piano, con la paura di sentire la risposta.
Nico alzò lo sguardo, questa volta stancamente, quasi come se parlare gli costasse uno sforzo immenso: «Stavo venendo da te per cercare di capire perché mi stessi evitando» disse poi.
Jason lo sapeva, lo sentiva. Era a causa sua se era accaduto tutto ciò, era colpa sua di ogni cosa, e ora Nico l'odiava. Come poteva fare altrimenti? Se lui non avesse smesso di parlargli, lui non avrebbe sentito la necessità di andare da lui a chiedere spiegazioni, se lui non avesse incominciato a ignorarlo, probabilmente quella strada l'avrebbero fatta insieme e chiunque l'avesse conciato in quel modo non si sarebbe nemmeno avvicinato. Se solo non l'avesse allontanato, adesso non ci sarebbe stato Will Solace al suo fianco, ma lui.
Si pentì immediatamente dell'ultimo pensiero: non pensava di essere una persona così meschina e, anzi, doveva essere grato a Will per essergli stato accanto in un momento così difficile, piuttosto che provare un'ingiusta invidia nei suoi confronti.
«Nico, io...-»
«Senti Jason, non voglio le tue scuse: non me ne faccio nulla. Quello che voglio è almeno una spiegazione, e voglio che sia sincera» lo interruppe di nuovo. Da quando Nico era diventato così sicuro? Possibile che non se ne fosse accorto? Si sentiva come un genitore che si rendeva conto per la prima volta che il suo figlioletto che si era abituato a cullare e a proteggere, ora era capace di difendersi da solo e da solo compiva le proprie scelte. E si rese conto che, forse, non era più tanto Nico ad avere bisogno di lui, quanto lui ad aver bisogno di Nico. Se prima era convinto di essere un ragazzo responsabile, con la testa sulle spalle e tutto sommato decente per quel che riguardava i sentimenti, era bastato un bacio – per di più dato sotto l'effetto dell'alcool – a far crollare ogni cosa: si era accorto del risentimento che alcuni suoi compagni di squadra provavano nei suoi confronti – invece di aiutarlo, non facevano altro che rispondere male ai suoi consigli da capitano e a lanciargli frecciatine –, aveva perso la ragazza a cui più teneva sulla faccia della Terra e adesso lei l'odiava (o meglio, così dava a vedere: lui la conosceva abbastanza da sapere che l'unica cosa che provava era delusione e tristezza... e lui stava ancora più male), era riuscito a ferire un ragazzo che semplicemente si era ritrovato al momento sbagliato nel posto sbagliato e a invidiarlo per motivi talmente sciocchi ed egoisti che Jason si vergognava anche solo a ripensarci e si era accorto di un sentimento nei confronti di quello che era il suo migliore amico, un qualcosa che non sapeva ancora ben interpretare – cotta passeggera? Attrazione? O qualcosa di più... profondo? – ma che l'aveva spaventato talmente tanto da allontanarsi da lui.
Molto spesso l'avevano definito leader e, anche se a lui quella parola non era mai piaciuta particolarmente, aveva preso sul serio le aspettative che si hanno da un leader, i suoi compiti, l'aspetto che deve avere, gli obiettivi che lui, insieme alla sua squadra, doveva raggiungere e diventare un qualcuno che, agli occhi degli altri, fosse più simile a un'icona più che a un ragazzo. Eppure bastava così poco per farlo cadere nel fango? Bastava un bacio per renderlo, agli occhi di tutti, umano? Non voleva essere umano, lui aveva delle aspettative da soddisfare e per farlo doveva essere perfetto.
Si toccò piano la cicatrice sul labbro, quindi sorrise tra sé e sé: doveva essere perfetto sotto gli occhi degli altri, ma bastava davveromostrarsi perfetto per esserlo davvero? La cicatrice, quella piccola imperfezione, gli stava dando la risposta.
Sei umano, Jason, sei un ragazzo come tanti, e ormai tutti ti vedono così... quindi che hai da perdere?
«All'inizio pensavo che evitarti fosse la cosa giusta da fare: 'Chissà che reazione avrebbe avuto la gente a vederci insieme, dopo le dicerie che c'erano sul nostro conto!', mi dicevo. Ma sai, Nico... io l'ho sempre saputo che non era questa la vera ragione».
«E qual era?»
«Ho paura, Nico. Sono terrorizzato da una cosa che è successa quella cazzo di sera».
Nico sospirò: «Non aver paura di aver baciato Will, Jason. È normale, credo, fare cazzate da ubriachi. E poi l'avevi già baciato e...-»
«No, non è questo che mi spaventa,» lo interruppe «ciò che mi spaventa è cosa ho immaginato mentre lo baciavo. Inizialmente era Will e basta – e, cielo, era fantastico anche così! –, ma a un certo punto non è stato più Will...»
Nico lo guardò interrogativo: «In che senso, Jason? Non capisco...»
«I capelli di Will sono diventati come neri, i suoi occhi anche, le sue labbra si sono assottigliate, la pelle è diventata pallida e il suo corpo... è stato come si rimpicciolisse fra le mie braccia. Will non era più Will e basta, era diventato te. Ho immaginato di baciare te, Nico».  


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