capitolo 4

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Correva.
Correva e basta.
Non sapeva dove stesse andando. Sapeva solo che doveva correre. Le gambe non si fermavano.
Era come se tutto intorno a lui si fosse distrutto. Ogni certezza, ogni speranza. Tutto.
E ora si trovava a precipitare nel vuoto.
Ma lui non voleva. Non voleva.
E per questo adesso stava correndo, cercando di scappare da quel baratro. Ma più correva più sentiva di stare sprofondando.

Continuando a correre tra le case di quartieri sempre più silenziosi, si ritrovò nei pressi della ferrovia. Oltre quella c'erano delle terre "di nessuno" a cui cedevano il passo gli alberi di un bosco.
Cristian continuava a correre nonostante fosse completamente buio. Le luci della città non illuminavano più il suo cammino e , mentre correva tra l'erba alta, inciampò e cadde a terra.
Cercò di rialzarsi e ricominciare a correre ma le gambe iniziavano a non reggergli più. Rallentò.
I primi alberi cominciavano a circondarlo e rischiò di cadere di nuovo a causa delle radici che sporgevano dal terreno. Per evitare l'impatto si aggrappò al tronco di un albero.
Decise di fermarsi. Aveva il fiatone e le gambe gli facevano male.

Era tutto sbagliato.
Cominciò a prendere a calci la pianta, poi a pugni fino a farsi sanguinare le nocche.

- Perché a me? Perché non a qualcun'altro? Cosa ho fatto di male per meritarmi questo? -

Lacrime di rabbia gli scelsero dagli occhi.

- Non voglio morire -

Era fuori di sé, iniziò a piangere.

- NON VOGLIO MORIRE!! -

Gridò con tutto il fiato che in gola.
Smise di sfogarsi contro l' albero e si accasciò a terra. Si trascinò per poggiare la schiena contro il tronco.
I singhiozzi si sentivano su tutto il suo corpo. Stava tremando.

- Non voglio...morire...-

Diceva solo queste parole tra un sussulto e l'altro.
Si rannicchiò in posizione fetale in mezzo alle foglie e pianse tutto quello che aveva in corpo.

Ancor prima di aver aperto gli occhi sentiva già la testa che gli pulsata.
Si girò e, aprendo gli occhi, la prima cosa che vide furono i raggi del sole tre le foglie.
Per un attimo Cris non capì cosa stesse succedendo. Poi in un attimo ricordò tutto.
Il messaggio, la scoperta, la corsa disperata.
Gli venne di nuovo da piangere anche se si sentiva completamente svuotato.

A fatica cercò di mettersi in piedi. Aveva dormito lì,  per terra in mezzo a quel bosco e ora aver a tutto il corpo indolenzito.
Tremava e se ne accorse mentre cercava di prendere il telefono.
Erano le sette e mezza. Aveva freddo e anche fame.
Cercò di pulirsi un po' i vestiti e nel farlo notò un buco nei pantaloni sul ginocchio e una ferita con del sangue raggrumato. Probabilmente se l'era fatta quando era caduto la scorsa notte.
Provò a camminare ma le gambe non sembravano reggere molto. Si fermò.
Dove sarebbe andato ora?

Forse dovrei tornare a casa

Scartò l'idea. Non voleva che sua madre soffrisse nell'aspettare la morte di suo figlio. Perché stando con lei avrebbe finito col dirglielo. Sicuramente.
Dove sarebbe andato allora?
Quello era praticamente il suo ultimo giorno di vita. Cercò nella sua tasca e vi trovò alcuni soldi.
Si ricordò che era vicino alla stazione. Sarebbe andato nel bar e lì avrebbe deciso cosa fare.

Era nella cucina e si stava preparando un caffè.
Erano le dieci e mezza.
Elisabeth sbadigliò assonnata. Si era concessa di svegliarsi tardi essendo domenica.
Suo figlio probabilmente stava dormendo profondamente.

Chissà come se la sarà spassata ieri sera, non l'ho sentito neanche rientrare.

La madre di Cris era un tipo che lasciava molte libertà al figlio, nonostante avesse le sue regole su cui non si poteva discutere.
Vivevano da soli, loro due, in quell' appartamento in periferia in cui abitavano ormai da sette anni, da quando il padre di Cristian li aveva lasciati.
Da quel momento se l'era sempre cavata da sola, non aveva mai chiesto aiuto a nessuno.
Suo figlio era tutto ciò che le rimaneva e averebbe continuato a proteggerlo. Non importava quali problemi ci sarebbero stati, se poteva voleva esserci per lui.

Ormai sono le undici, sarà meglio andarlo a svegliare o non farà pranzo.

Si alzò dalla sedia della cucina. Si stiracchiò un pò osservando il cielo fuori dalla finestra. Sembrava esserci un pallido sole all' orizzonte, ma con tutti i cambiamenti che il tempo faceva in quel periodo non era sicura che si sarebbe mantenuto a lungo.
Raggiunse la porta della camera del figlio e iniziò ad aprirla lentamente per evitare di svegliarlo di colpo.

- Cris, sono le undici, dai alzati che..-

La finestra con le serrande alzate faceva entrare la luce per poi farla posare sul letto. Vuoto.
Poggiata sul cuscino c'era una lettera.

Seduto su un tavolino Cristian stava osservando il panorama fuori la vetrina del bar. Davanti a lui una tazza di caffelatte semi piena che si stava lentamente raffreddando.
Si chiedeva perché sentisse il bisogno di mangiare pur sapendo che di lì a poco sarebbe morto. Probabilmente era il suo istinto di sopravvivenza, lo stesso che nel suo cervello stava lottando contro quella parte di lui che ormai aveva accettato la sconfitta.
Quell'istinto che gli voleva impedire di arrendersi, pur sapendo che non ci sarebbe stato nulla da fare.
Si sentiva un po' come quelle persone a cui era stata diagnosticata una malattia fulminante e che si ritrovavano nel loro letto d'ospedale ad aspettare la fine.
Lui non si trovava su di un letto. Era libero di muoversi, combattuto tra la voglia di scappare per non so quale posto e quella di accasciarsi a terra e non rialzarsi più.
Probabilmente avrebbe scelto la seconda, se non fosse per la paura di venire raccolto per sbaglio da qualche camion dei rifiuti. Ma trovandosi in una stazione, forse valeva la pena tentare la prima opzione.
Fu così che Cristian comprò il primo biglietto disponibile per una città vicina e si ritrovò seduto all' interno di un vagone in un posto vicino al finestrino ad osservare il paesaggio che scorreva.
Forse, pensando alla sua situazione, si sarebbe dovuto arrabbiare, avrebbe dovuto spaccare tutto, ma solo una cosa era presente in lui. Il vuoto.
E la comprensione di non poter fare nulla.
Era quella forse la cosa che più lo svuotata.

"Cara mamma, scusa se non ho avuto il coraggio di parlatene a voce. Forse adesso sarai arrabbiata con me, ti capisco. Spero che un giorno riuscirai a perdonare la scelta che ho preso..."

Davanti a lui le poche case che costituivano l'estrema periferia della città stavano lasciando il posto all' aperta campagna. La luce nel frattempo era stata oscurata dalle nuvole che erano ricomparse.

"Sicuramente ti ho creato molti problemi, specialmente dopo che papà è morto. Nonostante tutto ti volevo ringraziare per tutto quello che hai fatto per me. Per tutte le volte che ci sei stata. Per tutte le volte che mi hai sostenuto. Grazie mamma..."

Dopo qualche fermata Cris capì che era arrivato il momento di scendere. Non aveva molti soldi perciò non si era potuto pagare un viaggio più lungo. Si alzò dal suo posto e, una volta che il treno si fu fermato, scese.

"Voglio solo che tu sappia che sei stata la cosa migliore che mi sia capitata. Ti voglio bene.

Cris"

Cristian era sceso dal treno e stava camminando vicino ai binari, quando notò una figura, ferma davanti a lui.
La stazione era deserta e quando il ragazzo alzò lo sguardo per osservarla, ne rimase colpito.
Era una figura affusolata avvolta in un cappotto nero. Sopra le calze anch'esse nere, un paio di tacchi rossi spiccavano, dello stesso colore dell'ombrello aperto sopra la sua testa.

- Ciao Cristian -

Dal cielo cominciarono a cadere le prime goccie e, nello stesso momento, le prime lacrime di sua madre.

Tu moriraiDove le storie prendono vita. Scoprilo ora