1. Lost

261 5 4
                                    

Sto scoprendo che fa male, sapere chi si è. Tutti dicono spesso che per conoscere il mondo bisogna prima conoscere sè stessi. Mille o più domande esistenziali sul perchè siamo venuti al mondo, perchè abbiamo questo corpo, queste braccia, questa vita, perchè parliamo, mangiamo, ricordiamo date e nomi e nozioni impossibili. Penso sia perchè l'uomo vuole essere ricordato, come a volere per forza incidere il proprio nome nella storia dell'umanità e volere che sia decantato e magari studiato in anni in cui non potrà nemmeno vedere se sarà così.
Alla fine, poi, scommetto che neppure ci si arriva, a capire chi si è. Siamo uomini, donne, bambini, piccoli esseri umani che vogliono lasciare un segno nell'universo. Sembra che tutti vogliano dire: nonostante il fatto che siamo così piccoli, qualcosa abbiamo seminato e vogliamo esserne orgogliosi. Forse ci si aggrappa ad ogni cosa per non pensare alla morte.
Non so per quale motivo io stia pensando a queste cose, mentre osservo il cielo stellato sopra Orlando, tentando di riconoscere ogni singola costellazione per distrarmi dal fatto che questa notte sarà l'ultima, qui. Sembra un'impresa impossibile, comunque.
Orlando è una città nello stato della Florida, negli Stati Uniti d'America. Il caldo le fa da padrone e c'è il sole tutti i giorni, tanto che il mio guardaroba invernale è quasi inutilizzato. Le persone sono sempre così gentili e sorridenti che penso sia per questo motivo che lo sono anche io.

Jo dice che però io sono esageratamente positiva e che allora alla gente viene naturale sorridermi, qui. Io ci credo poco, anche se le sue teorie non sbagliano mai. Orlando è sempre stata la mia casa, da che ne ho memoria, e pensare di lasciarla, districarmi dai rampicanti che mi tengono legata a questo luogo, a questo clima, a queste persone, mi fa provare emozioni contrastanti di rabbia e delusione.
Non sono mai stata una persona violenta, io, ma ho rischiato di diventarlo, quando ho scoperto che mi sarei dovuta trasferire. Jo dice che è giusto così, che devo andare via dalla Florida. Via da lei. Via da tutto quanto. Io non sono d'accordo, e per rafforzare i miei sentimenti eccessivamente negativi verso quella che dovrebbe essere la mia cara nonna, la destinazione è dall'altra parte degli Stati Uniti. Come se il fatto di andarmene non sia abbastanza.

Una leggera brezza mi scompiglia alcuni ciuffi di capelli sul viso. Sono seduta sul vano della finestra della mia stanza, nel nostro piccolo appartamento sopra il negozio di fiori di Jo.
La mia vita è sempre stata ordinaria, semplice. Io e mia nonna abbiamo sempre vissuto qui, lei si alzava ogni giorno all'alba, sgridandomi poi perchè non facevo lo stesso, ma lo sapeva bene che nemmeno un carro armato avrebbe potuto smuovermi dal letto. Tutti i giorni andavo a scuola, tutti i giorni tornavo a casa e facevo cose normali come leggere un libro, seduta sulla poltrona in salotto, mentre Ikigai, il mio gatto, si accoccolava compresso tra il bracciolo e il mio corpo.

Sento già la mancanza di quella palla di pelo tondeggiante, a pensarci. Quando avevo sei anni lo trovai sulla strada di casa, mentre tornavo da scuola, e mi fermai ad accarezzarlo. Era ancora un cucciolo, allora, dentro la scatola, abbandonato da chissà chi. Aveva questo pelo nero, folto e lungo così tanto che ci potevo affondare la manina. Solo nella zampa sinistra portava una macchia bianca, quasi stesse indossando un calzino. Quando la scoprii, seppi già cosa fare. L'avrei portato a casa con me e non mi importava se Jo avesse detto che non potevamo tenerlo, anche se sapevo che non l'avrebbe fatto mai.
Così tornai a casa, con la scatola che conteneva il gatto tra le braccia e un sorrisone dipinto in faccia. Mi perdonerà subito se sorrido, pensavo.
Jo non mi disse nulla quando le mostrai il piccolo micio, mi guardò solamente e rimase a guardarmi per un tempo che mi parve infinito con un'espressione quasi orgogliosa, fiera. Poi, dopo pochi attimi, si morse il labbro inferiore, dandomi l'impressione che ci stesse pensando. Ma io sapevo già quello che sarebbe avvenuto. Infatti, poi, mi venne vicino e mi sorrise, prendendo il gatto tra le mani e mi baciò in fronte.
Da allora Ikigai rimase con noi, crescendo con me e ingrassando fino a diventare un gatto obeso che al posto di zampettare, rotola per la casa.
Il pensiero mi fa sorridere e sospirare. E come a sentire i miei pensieri, Ikigai fa capolino dalla porta e mi viene vicino, zampettando e strascicandosi sul pavimento in legno di cedro.
Salta sul comodino, agile come se non avesse nemmeno la metà dei chili che si porta appresso, atterrando poi sulle mie gambe.
Miagola appena, guardandomi con quei suoi occhioni viola e allungandosi in tutta la sua stazza, comincia a fare le fusa.
- Nulla sarà più come prima. - mormoro, accarezzandogli distrattamente il pelo morbido mentre pian piano si addormenta sul mio grembo.

HoloceneDove le storie prendono vita. Scoprilo ora