Capitolo 7.

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"Il momento in cui cerchi di risalire, di salvarti, arriva. E con esso, anche la batosta che ti fa ricadere, o l'aiuto che ti permette di risalire alla vita. Una stella fissa che ti tira su, ti indica la via. Un qualcuno che ti stringe a sé, ti insegna ad amare, a vivere. Ti insegna ad essere giovane. Lei, forse, aveva trovato aiuto e batosta insieme."

***

Ho chiamato Alice, ieri. Ha pianto perché ho dimenticato il suo compleanno, ho dimenticato il suo regalo, ho quasi dimenticato che lei e la mamma esistessero nella mia vita. Ho pianto anche io, al telefono, perché sono stata una sorella letteralmente di merda. Una persona di merda. Una figlia di merda. La mamma ha detto che non era importante, che quelli di Alice sono solo i capricci di una bambina, che passerà anche questa. E io avrei tanto voluto crederle, invece non l'ho fatto, le sue parole non mi hanno sfiorata. Non passerà niente di tutto questo, è un ciclo infinito che non si concluderà mai e ogni qualvolta sembrerà che tutto stia andando per il meglio, che la felicità stia per prendere il sopravvento, ci sarà sempre quel ricordo lancinante di ciò che è stato e che non è potuto essere.
Ho pianto ancora, a casa, tra le braccia di Louis, desiderando ardentemente che tutto il dolore che ho portato andasse via. Invece no, tutta la distruzione è rimasta, soffocandomi, impedendomi di respirare.

L'inverno è sempre più vicino, il freddo sempre più intenso, ma io sono sempre qui, quando sono triste, su questa panchina sempre più fredda, in questo parco sempre più vuoto e triste. La prima volta che ho visto questo posto, dopo essermi appena trasferita, era un luogo che emanava speranza, che mi faceva capire che continuare a credere in qualcosa, continuare a sognare, non fosse un errore. Invece, con il tempo, è diventato un posto grigio, vuoto, solo, abbandonato. È stato distrutto dalla mia tristezza, ha cominciato a sgretolarsi, piano piano, sotto i miei occhi tristi. Perché è questo che faccio: distruggo le cose, le persone, la vita che mi è stata donata solo standoci a contatto per un po'.

- Sei sempre così triste.

La sento, sento la vita che si insinua tra le crepe di questo posto, al solo sentire della sua voce. Lo sento il tremolio delle mie mani che aumenta con la sua presenza, accanto a me. Le sento le nostre ginocchia che si sfiorano. Lo sento il suo respiro regolare accanto al mio, spezzato dalla tristezza. È sempre così che ci incontriamo, senza darci appuntamento. Io vengo qui a pensare, ad essere triste in pace. Lui viene ad assicurarsi che io ci sia ancora, che io sia ancora in questo posto, distrutta o meno.

- Cosa ti fa pensare che io sia triste?

Harry scuote la testa, sorridendo appena, il sorriso di chi conosce la paura, la distruzione. Il suo sguardo si sofferma nel mio, così intenso e dolce e sicuro di sé. Così bello. Si volta verso di me con calma, una lentezza estenuante, facendo vacillare il mio sguardo. Non ho la forza di incontrare i suoi occhi, il mio sguardo si sposta sulle sue mani, che si muovono verso le mie, con calma, senza fretta, come se volessero dirmi che sono al sicuro con lui.

- Il tremolio delle mani.

Prende le mie mani tra le sue, dimostrandolo. Dimostrando che sono debole, più debole di quanto si possa pensare; dimostrando che lui è un abile osservatore, così bravo da notare anche i particolari più nascosti.
Accarezza le mie mani per un po', stringendole nelle sue, stringendole come le mani di un papà stringono quelle di sua figlia, raccontandole una storia, quella delle loro vite, una storia che ripercorreranno insieme. Come le mani di un fratello maggiore stringono quelle della sorellina, per sorreggerla mentre cammina, evitando che cada.
Come le mani di un amico stringono quelle di una persona speciale. Una stretta di mano che sa di promessa. Non promette di proteggere dalla caduta, promette di cadere insieme, di rialzarsi insieme e di essere più forti di prima, insieme.
Tirandomi con sé, mi incita ad alzarmi e cominciamo a passeggiare in questo parco, verso l'uscita. La mia mano nella sua.

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