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Nel sogno c'è una donna, voltata di schiena.
Scorgo da lontano i suoi capelli biondi, lunghi e sottili come spighe di grano, lo stesso colore dei miei. Indossa una vestito di uno sbiadito color lillà che termina poco sopra i polpacci, e le uniche porzioni di pelle scoperta sono sporche di sangue rappreso. Spostando lo sguardo in basso mi accorgo che le sue caviglie sono circondate da spessi anelli di metallo che la imprigionano al suolo, che i piedi sono scalzi e martoriati. Comincio ad ansimare, avanzando di un passo. Mi scusi, dico ad alta voce. Il suono si perde nell'aria gelida della notte, e un brivido mi percorre le membra. Mi scusi, ha bisogno di aiuto? Continuo, cercando di avvicinarmi circospetta. Non c'è nessun altro lungo la strada, solo chilometri e chilometri di asfalto che si estende all'infinito. La donna non risponde ma, all'improvviso, colgo un leggero movimento dei suoi piedi che cercano di strisciare sul cemento per voltarsi. Signora, io la posso aiutare. Non sono una di loro. Lei emette una specie di rantolo, un suono gutturale che fatico a riconoscere come una parola. Muovo un altro passo in avanti. Ormai le sono praticamente attaccata alle spalle. Quella vicinanza mi provoca una strana reazione: percepisco il battito del mio cuore diventare più rapido, sudore freddo comincia ad incresparmi la pelle della fronte e della schiena. Quasi inconsciamente allungo il braccio e sfioro il giallo grano dei suoi lunghissimi capelli. Poi un pensiero mi percorre la mente, mozzandomi il fiato. Come ho potuto non averlo capito prima? Riconoscerei i suoi capelli dorati fra mille teste dorate. Hanno sempre avuto quella morbidezza che hanno solo le bambole, e lo so perché da bambina mi piaceva pettinarglieli con la spazzola che mi aveva regalato la nonna per il mio quinto compleanno. Lo facevo ogni sera, prima di addormentarmi, e lei si lasciava pettinare e acconciare i capelli anche se presto si sarebbe addormentata e il sonno avrebbe rovinato il mio lavoro. Mi diceva sempre che non le importava, perché di lì ad alcuni anni non avrebbe più sentito le mani della sua bambina sui capelli e voleva sfruttare e godersi al massimo quei momenti. L'angoscia mi assale, intrappolandomi nel peso dei ricordi e scuotendomi l'anima. Sento le lacrime premere per uscire ma faccio di tutto per non permetterglielo. Mamma, sussurro con un groppo in gola. Che cosa ti hanno fatto? Lei non risponde. Mamma ti prego... parlami. Ho bisogno di sentire la tua voce. Ho bisogno di sapere che è ancora qui, come la vedo, di sentirla vicina, di ricordarla come la donna che mi ha dato la vita e mi ha cresciuta fino ad ora, invece di considerarla al pari di una sconosciuta. Ho bisogno di sapere che c'è e che continua a lottare perché crede ancora in qualcosa. Ma lei non dice nulla, emette solo rauchi brontolii. E quando mi avvicino in modo da starle di fronte, ormai con le lacrime agli occhi, mi rendo conto che il mondo sta finendo, che sta morendo lentamente e che non c'è più spazio per i deboli ma solo per chi ha ancora la forza di lottare.

 Allungo di nuovo il braccio, sfiorando dolcemente e impotente il filo stretto intorno alle sue labbra, e con le dita tremanti cerco di pulirlo dal sangue che lo impregna completamente. La guardo impotente negli occhi, quegli occhi del colore della più pura ametista colmi di lacrime di dolore, di sconfitta. Scuote la testa, chiudendoli e facendo tintinnare le catene che la tengono prigioniera. L'ultimo impulso che ho è quello di abbracciarla forte, e abbandonarmi ancora una volta alle carezze di una madre. Ma poi, in un istante in cui non riesco più nemmeno a rendermi conto della situazione, un paio di mani mi afferrano da dietro e mi trascinano via, mentre la mamma cade in ginocchio e allunga le braccia sull'asfalto, grattandolo con le unghie. Io mi dimeno con tutta me stessa per tentare di liberarmi e correre da lei, ma la presa salda e potente che mi tiene prigioniera me lo impedisce. Sento l'impulso di gridare, ma farlo è inutile. Il grido rimane intrappolato nelle mie corde vocali, senza mai uscire. Lasciatemi! Devo andare da lei! Ha bisogno di me! Non sono sicura che le parole siano uscite dalla mia bocca, ma le sento rimbombare in testa in una martellante eco ripetitiva. E poi, mentre qualcuno continua a trascinarmi via, scorgo il sole nascere dietro le colline in lontananza, una luce fioca e debole, che sboccia come una rosa in primavera, e raggiunge la strada dove mia madre è stesa.

All'improvviso la vedo come un fantasma: quasi trasparente, lo sguardo vago e perduto, la veste divenuta bianca. Allunga di nuovo la sua mano verso di me.
E, in un istante terribile, la luce la inghiotte come un enorme aspirapolvere. L'ultima cosa che vedo è la sua mano sinistra, al cui anulare brilla ancora la fede nuziale.
Con una smorfia di dolore digrigno i denti e comincio ad ansimare pesantemente.
Poi, senza sapere come, sgrano gli occhi.
Urlando.

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