Le voci sibilavano nel buio. Yadviga strinse le palpebre e si concentrò, tentando di carpirne ogni parola, ma tutto ciò che le sue orecchie percepirono furono sussurri senza forma, così simili agli spifferi gelidi che le tormentavano il sonno nelle lunghe notti d'inverno.
La donna si rigirò nel suo giaciglio una, due, tre volte ancora. Si tappò le orecchie con le mani, ma le voci erano nella sua testa e nessuna barriera fisica sarebbe mai riuscita a zittirle. Yadviga grugnì un'imprecazione e si alzò a sedere. Nonostante fosse notte fonda, c'era qualcuno ad attenderla fuori al suo cancello. Poteva sentire il timore irradiarsi dal suo corpo, il tremolio delle sue mani, l'indecisione che ne tormentava le viscere.
La Baba Yaga si mise in piedi a fatica, le ginocchia che tremavano sotto il peso del suo corpo tozzo. Si coprì le spalle con lo scialle di lana che aveva adagiato su una sedia e bevve un sorso dell'intruglio denso e ambrato che buttava giù ogni mattina per riscaldarsi. Sentì per un istante un bruciore intenso attraversarle l'esofago e poi lo stomaco. Quel calore le percorse le viscere e la spina dorsale, per poi raggiungere le sue membra intorpidite.
Yadviga salì la stretta rampa di scale che conduceva in soffitta: Jasha dormiva nel suo angolo, sotto una ruvida coltre di coperte scure. La donna lo fissò per un istante. Fece per avvicinarglisi, ma si trattenne sulla soglia, le mani storte e nodose che ne artigliavano lo stipite. Imprecò a mezza voce e tornò indietro, claudicando per raggiungere la porta d'ingresso. L'aprì e si ritrovò di fronte un uomo a cavallo, il cui sguardo tradì un lampo di sorpresa che lui si sforzò di dissimulare. Si raddrizzò e si schiarì la gola. « Baba Yaga », disse e il volto della donna venne distorto da una smorfia di fastidio, « siete richiesta al Palazzo d'Inverno, per diretto ordine dello Zar Aleksandr, per grazia di Dio, Imperatore e Autocrate di Kholod ».
« Quale onore », biascicò Yadviga dall'alto della sua dimora, la voce priva di emozione. Gracchiò un ordine e la capanna si piegò sulle sue zampe, in modo che la porta d'ingresso tornasse allo stesso livello del suolo. Il cavallo del messaggero nitrì, s'impennò sulle zampe posteriori e indietreggiò. Il suo cavaliere serrò le dita attorno alle redini e strinse le ginocchia intorno al corpo della creatura per non cadere. La Baba Yaga lo fissò per un lungo istante. « Quali sono le ragioni del suo invito? », gli chiese.
Il messaggero deglutì. « Temo che non si tratti di un invito, ma di una formale convocazione. Il Naslednik Cesarevič* Aleksej, che Dio lo benedica e lo protegga sempre, ha contratto una strana malattia e nessun medico sa come fermarla ».
Yadviga annuì. Fissava l'uomo che le stava di fronte senza vederlo. La sua mente lavorava, congiungendo i punti necessari a portare a termine il disegno che le si presentava davanti, in attesa di essere svelato. Erano passati due giorni dal ritrovamento del primo cadavere, appeso come un pezzo di carne al ponte della Fredda, la Porta Meridionale della città di Kholod. Nel frattempo, altri due corpi erano stati ritrovati, sulla Porta Occidentale e quella Orientale: si trattava di monaci appartenenti al medesimo ordine del primo sacerdote assassinato. Le tre salme non presentavano ferite, né segni di alcun tipo, se si escludeva un unico inquietante dettaglio: la completa assenza delle palpebre.
La Baba Yaga non aveva alcun dubbio: ogni evento conduceva a quel punto, alla malattia che affliggeva il primo figlio maschio ed erede dello Zar di Kholod.
Yadviga si strinse nello scialle e ad un suo cenno la capanna salì di nuovo verso l'alto, allontanandola dal messaggero che la scrutava con timore. « Torna al Palazzo d'Inverno », gli ordinò la Baba Yaga. « Io sarò lì prima dell'alba ». Prima che l'uomo potesse risponderle, entrò nella sua casa e richiuse la porta.
« Jasha! », chiamò. La sua voce venne amplificata e ci vollero pochi secondi prima che la figura assonnata del servitore la raggiungesse. Il ragazzino si stropicciò gli occhi. « Mi avete chiamato? »
Yadviga ghignò e lo indicò con un cenno del capo. « Metti gli abiti buoni, ragazzo. Andiamo a trovare lo Zar ».Di norma, Yadviga non avrebbe concesso a nessuno la possibilità di salire sul suo mortaio. Solo una Baba Yaga poteva utilizzare un simile mezzo di trasporto. Quella notte, però, dovette fare un'eccezione: se avesse dovuto seguire Jasha sul suo cavallo, sarebbero arrivati al Palazzo d'Inverno con il sole già alto nel cielo e lei non aveva tempo da perdere.
Jasha tremava e non solo a causa del freddo pungente. Aveva trascorso la prima metà della sua vita nella città fredda, nelle zone di periferia dove si lavorava tanto e si mangiava poco, e la seconda metà con l'anziana donna che gli sedeva davanti. L'idea di tornare nel luogo che l'aveva visto nascere e crescere non lo entusiasmava, perché tutto ciò che aveva conosciuto era morto nel momento in cui lui gli aveva voltato le spalle. Ora stava per attraversare le soglie del Palazzo d'Inverno, la dimora dello Zar, dove ogni cosa gridava lusso e ricchezza, due parole così distanti da lui, che non aveva mai posseduto nulla se non gli stracci che indossava e le scarpe che calzava. Si strinse nel suo mantello e Yadviga lasciò che il mortaio si librasse in alto, guidandolo con il suo pestello.
Attraversarono la foresta di Kholod in silenzio. Jasha tenne il viso tra le braccia per evitare che il vento gli sferzasse le guance. Il gelo penetrava attraverso la stoffa e la pelliccia dei suoi abiti e gli si attaccava alle ossa. Superarono la Fulgida, la Porta Orientale della città fredda, lì dov'era stato ritrovato il secondo dei tre cadaveri, e furono a Kholod. Jasha si guardò intorno con curiosità famelica, divorando con gli occhi chiari ciò che gli si parava davanti: percorse con lo sguardo ogni edificio, l'acciottolato delle strade deserte e coperte di neve e fango, i marciapiedi (grigi e sporchi nelle periferie, piastrellati e lucidi man mano che ci si avvicinava alla dimora del sovrano) e gli alberi spogli che adornavano quelle arterie solitarie, scheletri pallidi contro le ombre della notte.
Quando giunsero alle porte del Palazzo d'Inverno, il servitore si mise in piedi a fatica, gemendo a causa del dolore alla schiena. Yadviga scosse la testa, lanciandogli un'occhiata di biasimo, e si trascinò verso il cancello, che le si spalancò di fronte rivelando l'accesso al Giardino d'Inverno, il cortile che conduceva all'ingresso della residenza reale.
La Baba Yaga e il suo servitore furono scortati attraverso il maestoso Palazzo, un dedalo di ampi corridoi, rampe di scale e pianerottoli decorati, fino a raggiungere una stanza isolata al piano superiore. Le guardie che la sorvegliavano li lasciarono passare.
La stanza era immersa nella penombra: l'unica luce proveniva da una lanterna accesa e appoggiata su un ripiano, la quale illuminava un maestoso baldacchino azzurro e alcune sagome che gli si muovevano intorno a malapena.
Un uomo era chino sul letto, il volto affondato tra le braccia, la schiena scossa dai singhiozzi. Mugolava, soffocando le parole nella stoffa dei suoi abiti pregiati, e batteva il pugno chiuso contro le coperte. Quando sentì il rumore di passi contro il pavimento di marmo della stanza, alzò la testa con uno scatto e indirizzò lo sguardo verso Yadviga e Jasha, che si facevano strada nella semi-oscurità.
Aleksandr Nikolaj Morozov, dodicesimo Zar di Kholod, si alzò in piedi, tentando di mantenere un contegno che ormai aveva perso. Jasha aveva visto il suo viso molte volte: era affisso in ogni piazza di Kholod, anche in quelle piccole e sporche della periferia in cui era cresciuto. Ne riconosceva i tratti: gli occhi piccoli e scuri, le folte sopracciglia, le labbra sottili, rosea cornice di una bocca i cui angoli sembravano perennemente curvati verso il basso.
« Mio figlio, il mio Aleksej », gemette. Tentò di mantenere ferma la voce, ma questa tremava e i singhiozzi spezzavano a metà ogni sua parola. « Potete guarirlo? » I suoi occhi erano colmi di disperata speranza.
La Baba Yaga si avvicinò di qualche passo e solo allora vide la donna che affiancava lo Zar nella sua veglia: era più alta di lui e così magra da risultare spigolosa, con gli zigomi sporgenti e le spalle affilate. Il suo corpo esile era fasciato in un lungo abito, nero come i suoi capelli. Il netto contrasto che la stoffa creava con la pelle pallida, del colore della malattia, la faceva somigliare a uno spettro, l'etereo fantasma della persona che era stata. Yadviga la riconobbe come la consorte dello Zar, la Zarina Sof'ja Ekaterina.
Le due donne si guardarono per un lungo istante, poi la Zarina si spostò per raggiungere suo marito, al di fuori del campo visivo della Baba Yaga. Il rumore dei suoi passi risuonò nel silenzio della camera come amplificato. Yadviga tossì e si spinse verso il grande letto che dominava la stanza. Al centro, sorretto da decine di cuscini foderati di stoffe calde e preziose, giaceva il futuro Zar della città fredda, il volto cereo madido di sudore, l'espressione sofferente che ne deformava i tratti delicati.
« Cosa dicono i medici? », chiese la Baba Yaga, le labbra distese in un ghigno cinico. Sapeva che nessun dottore sarebbe mai riuscito a capire la natura di quel malanno. Si trattava di magia.
« Che dobbiamo attendere e sperare », sussurrò lo Zar, lo sguardo perso nel vuoto. Si riscosse dai suoi pensieri e raggiunse il baldacchino con due ampie falcate. Tirò via le coperte dal corpo di suo figlio, che non parve neanche accorgersene, e lo sostenne, facendolo sedere. Gli sollevò le vesti, mettendo in mostra la sua schiena umida, lucida alla luce della lanterna. La pelle era attraversata da venature bluastre che si facevano strada sulle sue spalle e raggiungevano la base del suo collo, scomparendo al di sotto dei capelli scuri. Aleksandr le indicò con un dito tremante, senza avere il coraggio di sfiorarle davvero. « Si trovavano sulle dita, prima, poi sono peggiorate. Si sono diffuse come veleno. Poche ore ed erano sulle mani, sulle braccia... Neanche i salassi riescono a sortire alcun effetto ».
Yadviga tossì una risata amara e si sfilò lo scialle con un movimento brusco. « No, no, è stato un tentativo inutile. Non è cosa che possa essere risolta con i vostri metodi, questa. Non è una malattia ».
Aleksandr trasalì. « È davvero un veleno? Una sostanza tossica? » I suoi occhi, spiritati e nervosi, saettavano dall'anziana donna al bambino addormentato, l'incarnazione della morte e quella della vita, la prima in piedi di fronte a lui, la seconda lunga distesa in un letto, quasi immobile...
La Baba Yaga scosse la testa. Rovistò nelle maniche del suo abito e ne estrasse un fazzoletto ripiegato con cura. Lo spiegò, tenendolo sul palmo della mano rugosa: al suo interno c'era un mucchietto di polvere nera. Yadviga si leccò il pollice dell'altra mano e lo impresse nella misteriosa sostanza, che le si appiccicò al polpastrello, poi portò quello stesso dito alle labbra del Naslednik Cesarevič, spingendolo nella sua bocca.
« Cosa stai facendo a mio figlio? » La Zarina si sporse in avanti e allungò una mano verso la Baba Yaga, gli occhi sbarrati. Suo marito la immobilizzò e lei gli indirizzò un'occhiata di fuoco. Tentò invano di divincolarsi, colpendo il torace dello Zar con i piccoli pugni, artigliando le sue braccia con la mano libera. « Non permetterò che quella strega metta le mani sul mio unico figlio! », sbottò, la voce venata di panico. « Cosa gli stai facendo? »
« Rallenterà i sintomi », rispose Yadviga senza guardarla. Lasciò il fazzoletto ripiegato sul piccolo comodino accanto al letto e si voltò. « Dev'essere somministrato ogni poche ore. Non posso fare altro per lui ».
« Non puoi guarirlo? » Aleksandr trasalì e il respiro gli si bloccò in gola. Cadde in ginocchio, le spalle larghe scosse dai singhiozzi. Sof'ja lo guardò con disgusto, poi si voltò verso la Baba Yaga. « Me ne occuperò io », disse. La sua voce ferma riscosse lo Zar, che alzò lo sguardo e lo posò su sua moglie. Le lacrime gli colavano lungo le guance. Si portò una mano alla bocca per impedire ad altri suoni di varcare la soglia delle sue labbra, si alzò in piedi a fatica e, senza neanche asciugarsi gli occhi gonfi e umidi di pianto, indicò la porta della stanza con un gesto. « Io vi ringrazio », gracchiò. « Potete andare ».
Yadviga grugnì in risposta e si avviò verso l'uscita. Jasha, dietro di lei, osservò il ragazzino addormentato e tormentato dalla febbre. Quando la Baba Yaga richiamò la sua attenzione, lui si costrinse a distogliere lo sguardo e la seguì all'esterno, lo stomaco stretto in una morsa.
« Non credo che guarirà », gli disse Yadviga quando si furono allontanati. Jasha annuì: non lo credeva neanche lui.

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L'ultima Baba Yaga
FantasiaPrima classificata al Concorso Fantasy indetto da AShootingStarISee. Yadviga è una donna anziana, piegata dalla stanchezza e dal tempo. Abita nel bosco, nella sua bizzarra capanna di legno, circondata da un'alta palizzata perlacea. Ma Yadviga non è...