Il Cottage Sperduto Nel Nulla
forse una o due ore dopo...
Tra tutte le sveglie possibili, quell'uomo scelse la peggiore: due schiaffoni sulle guance. Decisamente un pessimo buongiorno.
Non ebbi facoltà di analizzare a fondo la situazione. Mi sembrava di essere su una giostra: il mondo girava così velocemente da non riuscire a distinguerne i colori. Riconobbi un una piccola casetta di legno, di modeste dimensioni, piazzata nel mezzo di un campo circondato da alberi.
L'uomo mi afferrò il braccio con troppa forza, così mi divincolai. Lo guardai sottecchi, provando a mettere a fuoco quell'immagine: capelli corvini, corti ed arruffati; occhi azzurri, freddi e cristallini come le acque del Pacifico; lineamenti delicati, con una barba fin troppo curata lungo il contorno del viso e a incorniciare le labbra increspate in una smorfia di disappunto. «Cammina» mi ordinò, con voce non molto decisa.
Salii faticosamente i quattro gradini e varcai la soglia della porta che il mio rapitore accorse prontamente ad aprire. Mi trovai in un salone collegato alla cucina da un'ampia arcata. Cinque finestre, quattro porte.
Quanti secondi ci sarebbero voluti per attraversare la stanza, afferrare un coltello dal ceppo sul bancone e ficcarlo nel ventre di quell'uomo?
Forse dieci.
Con un po' di concentrazione avrei avuto qualche possibilità. Stavo per scattare quando mi afferrò per la spalla e mi premette contro il muro, spezzandomi il respiro.
«Sei un ragazzo strano; non sembri molto spaventato». La sua voce era profonda. Il mio cuore prese a battere più velocemente. Temevo di cedere ad un nuovo attacco di panico.
«Non guardi con attenzione» risposi, «e sicuramente la roba che mi fa girare la testa aiuta». Avevo le mani sudate. Anzi no, ero completamente sudato. «Qualsiasi cosa chiederai come riscatto, mio padre potrà sicuramente permettersela» aggiunsi, senza dare troppo peso alle parole. Era quasi vero.
Lui socchiuse gli occhi. Credo mi stesse studiando. Ressi il confronto rispondendo al suo sguardo penetrante. Sospirò e mi afferrò nuovamente il braccio. Allora lo strattonai verso di me e sollevai di scatto il ginocchio, colpendolo proprio tra le gambe.
Mi lanciai verso la cucina ma mi fece inciampare e caddi a terra. Prima di riuscire a rialzarmi, lui si fiondò su di me e mi mise un braccio intorno al collo, impedendomi di respirare.
«Sei un micetto selvatico» sussurrò rabbioso.
Le tempie pulsavano; mi stava esplodendo la testa. Le immagini erano nuovamente appannate. Provai a divincolarmi e la corda mi tagliò i polsi.
«Metti giù le mani». Non ascoltai e tentai di nuovo, ma la sua stretta non si allentava.
«Ti ho detto di mettere giù le mani». Il mio corpo lo ignorò e si dimenò sotto il suo, cercando un modo per colpirlo, per costringerlo a lasciarmi. Per un istante persi lucidità: tutto divenne rosso sangue, gli occhi si riempirono di lacrime che colarono inarrestabili lungo le guance gonfie.
Quando finalmente l'aria mi riempì i polmoni, mi ritrovai accasciato e senza forze. Riuscivo solo a tossire e ad annaspare.
Alla fine mi trascinò in una stanza. C'era un letto, sul quale mi dovette coricare di peso. Unì un pezzo corda al nodo alle mani per fissarlo alla spalliera di metallo e mi lasciò lì.
Un po' per i residui delle droghe, un po' per la spossatezza degli eventi, la mia mente prese in fretta il sopravvento sul mio conscio e le mie paure si animarono in sogni tormentati.
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Innamorato di te che mi hai rapito
Short Story"Se vuoi il mio corpo non devi violentarmi; puoi averlo senza farmi male". Una mezza verità, perché il dolore più grande è quello che ti distrugge dentro, che ti spezza anima e mente, e piano piano ti trascina nell'abisso. Ma come un velo che scivol...