Il Cottage Sperduto Nel Nulla
sesto giorno
«Devi mangiare».
«Non ho fame».
«Non importa; devi mangiare».
«A me non importa, perché non ho fame». Le manette di pelle facevano decisamente meno male della corda, ma le trovai disgustosamente pornografiche. Dopo averlo quasi soffocato con le gambe, il giorno prima, aveva deciso di legarmi anche alle caviglie. Ora avrei accolto volentieri l'effetto allucinogeno ed estemporaneo di qualche stupefacente.
Ormai da giorni si ostinava a propinarmi le sue schifezze, che io rifiutavo con estenuante ostinazione. Perché non ero nelle condizioni psicologiche per mangiare, e perché pessimo era un complimento per la sua cucina.
«Quando riuscirai a fare qualcosa di decente, tipo una lasagna, forse ne riparleremo». E con queste parole ci eravamo congedati. Lui si era portato il suo piatto di roba bruciata con sé e mi aveva lasciato da solo, proprio come volevo, a desiderare di potermi rannicchiare per poter piangere senza farmi vedere da nessuno. Mi manca la mia mamma –pensai.
L'indomani non venne a svegliarmi nessuno, e per la prima volta ebbi modo di riflettere a cosa avrei potuto fare se mi avesse lasciato lì: niente, sarei morto disidratato, nel modo più triste, lento e doloroso che si possa immaginare. Le manette, così come le cavigliere, tenevano gli arti separati con un divisorio rigido, ed erano troppo tese per poter far leva in qualche modo.
Gridare? Chi mai mi avrebbe sentito?
Ricevetti visite per pranzo. Bussò prima di entrare, ma in realtà quasi non me accorsi. Entrò portando con sé un piatto coperto dalla stagnola, una forchetta di plastica, un tovagliolo e una bottiglia di acqua. Posò il tutto sul comodino fin tanto che mi liberò i polsi e allentò la tensione ai piedi per consentirmi di mettermi seduto contro lo schienale.
Mi massaggiai i polsi e quando sollevai lo sguardo lo vidi intrecciarsi le mani con lo sguardo assorto, come se si sentisse a disagio.
«Ascolta...» iniziò con un filo di voce. Notai che la barba gli era cresciuta e lo faceva molto più vecchio. Mi carezzai il viso per sentire la mia: non molto lunga, ma comunque troppo per i miei gusti.
«Beh?» incalzai, con un tono un po' indelicato. Lui mi guardò. Aveva gli occhi lucidi e nel momento in cui i nostri sguardi si incrociarono, esercitò su di me uno strano potere: mi sentii quasi dispiaciuto e provai pena, perché chiunque si fosse spinto a compiere gesti così estremi doveva aver vissuto in condizioni estreme. Ma in fondo –mi dissi– non l'avrei mai perdonato per questo. Così scossi impercettibilmente la testa e allontanai la pietà dal mio cuore. «Se hai finito di parlare allora vattene» affermai sprezzante.
Il suo sguardo mutò con la velocità di un battito di ciglia. «Ti ho portato da mangiare; finiscilo» ordinò con tono tagliente prima di alzarsi e di andare nell'altra stanza, dalla quale mi avrebbe tenuto sotto controllo per evitare brutte soprese. Ma le soprese erano per me: quel giorno sul menù c'erano lasagne.
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Innamorato di te che mi hai rapito
Short Story"Se vuoi il mio corpo non devi violentarmi; puoi averlo senza farmi male". Una mezza verità, perché il dolore più grande è quello che ti distrugge dentro, che ti spezza anima e mente, e piano piano ti trascina nell'abisso. Ma come un velo che scivol...