Tosto agli araldi dall'arguta voce
Chiamare impose i capelluti Achivi;
E questi, al gridar loro accorsi in fretta,
Si ragunaro, s'affollaro. Ei pure
Al parlamento s'avviò: tra mano
Stavagli un'asta di polito rame
E due bianchi il seguìan cani fedeli.
Stupìa ciascun, mentr'ei mutava il passo,
E il paterno sedil, che dai vecchioni
Gli fu ceduto, ad occupar sen gìa:
Tanta in quel punto e sì divina grazia
Sparse d'intorno a lui Pallade amica.Chi ragionò primiero? Egizio illustre,
Che il dorso avea per l'età grande in arco,
E di vario saver ricca la mente.
Sulle navi d'Ulisse alla feconda
Di nobili destrier ventosa Troia
Andò il più caro de' figliuoli, Antìfo;
E a lui diè morte nel cavato speco
Il Ciclope crudel, che la cruenta
S'imbandì del suo corpo ultima cena.
Tre figli al vecchio rimanean: l'un, detto
Eurìnomo, co' proci erasi unito,
E alla coltura de' paterni campi
Presedean gli altri due. Ma in quello, in quello,
Che più non ha, sempre s'affisa il padre,
Che nel pianto i dì passa, e che sì fatte
Parole allor, pur lagrimando, sciolse:
"O Itacesi, uditemi. Nessuna,
Dacché Ulisse levò nel mar le vele,
Qui si tenne assemblea. Chi adunò questa?
Giovane, o veglio? E a che? Primo udì forse
Di estrania gente che s'appressi armata?
O d'altro, da cui penda il ben comune,
Ci viene a favellar? Giusto ed umano
Costui, penso, esser dee. Che che s'aggiri
Per la sua mente, il favorisca Giove!Telemaco gioìa di tali accenti,
Quasi d'ottimo augurio, e, sorto in piedi,
Ché il pungea d'arringar giovane brama,
Trasse nel mezzo, dalla man del saggio
Tra gli araldi Pisènore lo scettro
Prese, e ad Egizio indi rivolto: "O", disse,
"Buon vecchio, non è assai quinci lontano
L'uom che il popol raccolse: a te dinanzi,
Ma qual, cui punge acuta doglia, il vedi.
Non di gente che a noi s'appressi armata,
Né d'altro, da cui penda il ben comune,
Io vegno a favellarvi. A far parole
Vegno di me, d'un male, anzi di duo,
Che aspramente m'investono ad un'ora.
Il mio padre io perdei! Che dico il mio?
Popol d'Itaca, il nostro: a tutti padre,
Più assai che re, si dimostrava Ulisse.
E a questa piaga, ohimè l'altra s'arroge,
Che ogni sostanza mi si sperde, e tutta
Spiantasi dal suo fondo a me la casa.
Noioso assedio alla ritrosa madre
Poser de' primi tra gli Achivi i figli.
Perché di farsi a Icario, e di proporgli
Trepidan tanto, che la figlia ei doti
E a consorte la dia cui più vuol bene?
L'intero dì nel mio palagio in vece
Banchettan lautamente, e il fior del gregge
Struggendo e dell'armento, e le ricolme
Della miglior vendemmia urne votando,
Vivon di me: né v'ha un secondo Ulisse,
Che sgombrar d'infra noi vaglia tal peste.
Io da tanto non son, né uguale all'opra
In me si trova esperïenza e forza.
Oh così le avess'io, com'io le bramo!
Poscia che il lor peccar varca ogni segno.
E, che più m'ange, con infamia io pero.
Deh s'accenda in voi pur nobil dispetto;
Temete il biasmo delle genti intorno;
Degl'immortali dèi, non forse cada
Delle colpe de' proci in voi la pena,
L'ira temete. Per l'Olimpio Giove,
Per Temi, che i consigli assembra e scioglie,
Costoro, amici, d'aizzarmi contro
Restate, e me lasciate a quello in preda
Cordoglio sol, che il genitor mi reca.
Se non che forse Ulisse alcuni offese
De' prodi Achivi, ed or s'intende i torti
Vendicarne sul figlio. E ben, voi stessi
Stendete ai beni la rapace destra:
Meglio fôra per me, quando consunti
Suppellettil da voi fóssemi e censo,
Da voi, dond'io sperar potrei restauro.
Vi assalirei per la città con blande
Parole ad uno ad un, né cesserei,
Che tutto in poter mio pria non tornasse,
E di nuovo s'ergesse in piè il mio stato.
Ma or dolori entro del petto, a cui
Non so rimedio alcun, voi mi versate.Detto così, gittò lo scettro a terra,
Ruppe in lagrime d'ira e viva corse
Di core in cor nel popolo pietade.
Ma taciturni, immoti, e non osando
Telemaco ferir d'una risposta,
Tutti stavano i proci. Antìnoo solo
Sorse e arringò: "Telemaco, a cui bolle
Nel petto rabbia che il tuo dir sublìma,
Quai parole parlasti ad onta nostra?
Improntar sovra noi macchia sì nera?
Non i migliori degli Achei: la cara
Tua madre e l'arti, ond'è maestra, incolpa.
Già il terzo anno si volse, e or gira il quarto,
Che degli amanti suoi prendesi gioco;
Tutti di speme e d'impromesse allatta,
Manda messaggi a tutti, ed altro ha in core.
Tela sottile, tela grande, immensa,
Questo ancor non pensò novello inganno?
A oprar si mise, e a sé chiamonne, e disse:
"Giovani, amanti miei, tanto vi piaccia,
Poiché già Ulisse tra i defunti scese,
Le mie nozze indugiar, ch'io questo possa
Lugubre ammanto per l'eroe Laerte,
Acciò le fila inutili io non perda,
Prima fornir, che l'inclemente Parca,
Di lunghi sonni apportatrice, il colga.
Non vo' che alcuna delle Achee mi morda,
Se ad uom, che tanto avea d'arredi vivo,
Fallisse un drappo in cui giacersi estinto".
Con simil fola leggermente vinse
Gli animi nostri generosi. Intanto,
Finché il giorno splendea, tessea la tela
Superba, e poi la distessea la notte
Al complice chiaror di mute faci.
Così un triennio la sua frode ascose,
E deluse gli Achei. Ma come il quarto
Con le volubili ore anno sorvenne,
Noi da un'ancella non ignara instrutti,
Penelope trovammo, che la bella
Disciogliea tela ingannatrice: quindi
Compierla dové al fin, benché a dispetto.
Or, perché a te sia noto e ai Greci il tutto,
Ecco risposta che ti fanno i proci.
Accommiata la madre, e quel di loro,
Che non dispiace a Icario e a lei talenta,
A disposar costringila. Ma dove,
Le doti usando, onde la ornò Minerva,
Che man formolle così dotta e ingegno
Tanto sagace, e accorgimenti dielle,
Quali non s'udir mai né dell'antiche
Di Grecia donne dalle belle trecce,
Tiro, Alcmena, Micene, a cui le menti
Di sì fini pensier mai non fioriro;
Dove credesse lungo tempo a bada
Tenerci ancor, la sua prudenza usata
Qui l'abbandonerìa. Noi tanto il figlio
Consumerem, quanto la madre in core
Serberà questo suo, che un dio le infuse,
Strano proposto. Eterna gloria forse
A sé procaccerà, ma gran difetto
Di vettovaglia a te; mentre noi certo
Da te pensiam non istaccarci, s'ella
Quel che le aggrada più pria non impalma".